Arturo Scotto, deputato, membro della Direzione nazionale del Partito democratico, è uno degli esponenti della sinistra più attenti e partecipi alla politica estera. E sulla guerra ha idee molto chiare.

Cosa significa l’annuncio di Vladimir Putin dello schieramento di testate nucleari tattiche in Bielorussia?
Ci dice che non c’è soluzione militare nella tragedia Ucraina. Che stiamo tornando decenni indietro rispetto agli accordi sottoscritti tra Reagan e Gorbacev. Nel 2019 Trump sospese il trattato Inf, oggi Putin quello Start. A meno che non si immagini di mettere nel conto una deflagrazione atomica, occorrerà riprendere quel filo: la messa al bando delle armi atomiche e dunque la fine della stagione della deterrenza nucleare. È l’unica strada che si può battere. Mi è ricapitato tra le mani recentemente lo straordinario discorso pronunciato da Palmiro Togliatti a Bergamo nel 1963. Sembra un tempo lontanissimo ma suona come un monito più che attuale: “Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa “novità”; l’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità. Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari”. Quelle parole interloquivano con Papa Giovanni XXIII e l’enciclica “Pacem in terris”. Se la politica si separa da un messaggio universalista finisce per rivelarsi mera spettatrice dell’esistente e, dunque, viene meno la consapevolezza della “comune natura umana”. A quel punto parlano solo le armi.

Siamo entrati nel secondo anno di guerra. Che lezioni dovremmo trarre?
La storia si è rimessa in moto e si stanno gettando le basi per la fine della stagione unipolare dove l’ordine mondiale si è articolato attorno al modello di relazioni internazionali del paese vincitore della guerra fredda: gli Stati Uniti. L’attivismo cinese ci dice che questo non è più un dato acquisito. Tuttavia, io penso che sia un problema. Non auspico che si passi dall’unipolarismo post guerra fredda a un nuovo bipolarismo del terrore. Io credo che l’Europa debba battere un colpo per questo. Il nuovo ordine mondiale o è multipolare o semplicemente non è. E dunque auspicherei un ruolo più assertivo dell’Unione, anche perché non sempre gli interessi del nostro continente coincidono con quelli di Washington e Pechino. Ce lo dice Kissinger: la guerra finisce se Mosca e Kiev sapranno quale è il loro posto nel nuovo assetto globale. E qui c’è lo spazio dell’Europa, che non può essere sovrapposta a una Nato sempre più a trazione polacca. La diserzione della politica e della diplomazia ci regalano un quadro che agevola un nuovo sodalizio tra Russia e Cina, con la prima in una posizione di evidente vassallaggio. Forse non sarò troppo raffinato ma a me hanno insegnato da quando avevo i calzoni corti che davanti a due temibili avversari il compito della politica è lavorare per dividerli, non per saldarli.

La risposta dell’Occidente di fatto resta consegnata alle armi.
Se Putin è un criminale di guerra – e io lo penso da quando ci fu Grozny, molto prima dell’indicibile strage di Boucha – non possiamo contrapporgli le armi tipiche dei criminali di guerra. I proiettili all’uranio impoverito non sono delle armi convenzionali, siamo davanti a un salto di qualità. E noi lo ricordiamo dai Balcani all’Iraq cosa hanno significato per migliaia di soldati, anche italiani. Atroci sofferenze che sono state indagate anche da commissioni del Parlamento italiano. Sono armi che andrebbero vietate su scala planetaria e che vanno chiaramente in conflitto con la Convenzione di Ginevra. Vanno tolte dal campo e l’Italia deve intervenire per dirlo a livello internazionale. Lo chiederò al Governo – finora non pervenuto – in una mozione parlamentare spero quanto più trasversale possibile.

Cosa resta della suggestione di una nuova e più democratica governance mondiale?
Abbiamo introiettato dopo la fine del 900 la cultura del limite. E’ uno degli effetti – io credo positivo – della fine dei regimi dell’est, di un’ideologia che anziché liberare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo aveva schiacciato l’identità irriducibile di ciascun individuo nella dimensione assoluta dello Stato e del potere politico. Eppure questa svolta non si è portata dietro anche la consapevolezza che la terra è una sola e non ha risorse illimitate. La guerra è oggi uno dei propulsori principali del riscaldamento globale, la crisi ucraina che è anche inevitabilmente lotta per le risorse energetiche ha riesumato persino le centrali a carbone. Ma noi europei rischiamo altre dipendenze e non sempre da regimi liberal-democratici. Questo ci fa capire quanto la transizione ecologica non sia soltanto un tema che ha a che fare con la geopolitica, ma interroga la stessa tenuta democratica delle nostre società. Mi si conceda lo slogan: il solare è pace, il fossile è guerra.

L’Europa, non pervenuta?
Schlein ha fatto bene a rievocare la necessità di un piano di pace europeo. Non è una forma di ammutinamento nei confronti del sostegno al diritto di autodifesa del popolo ucraino, ma un passo in avanti rispetto ai teorici dell’inevitabilità dell’escalation militare del conflitto: quelli del fine guerra mai. Qualcosa finalmente si muove. Penso all’iniziativa del leader dell’Internazionale socialista nonché primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, che va in Cina e, pur non condividendo molte ambiguità del piano di Xi Jingping, prova ad abbattere la barriera dell’incomunicabilità tra cinesi e americani. Servono personalità che oggi lavorino attivamente per sdoganare di nuovo la parola pace e fermino la folle e sconsiderata corsa al riarmo.

Il nuovo Pd e il movimento pacifista. Come rinsaldare un rapporto in crisi?
Due parole: autonomia e ascolto. Autonomia che è quella che giustamente rivendica il movimento pacifista, più largo, plurale e diffuso di come è rappresentato. Anche al sistema mediatico sfugge la potenza della profezia di Francesco e come questa mobiliti migliaia di cittadini che sono fuori dalle reti associative e sindacali. Ascolto perché il movimento non è portatore di certezze ma di domande. Domande che interrogano il modello di sviluppo, che passare da un liberismo sfrenato e nemico dell’ambiente a una sorta di keynesismo di guerra.

Il Mediterraneo è sempre più il mare della morte, mentre sulla sponda Sud la Tunisia sta diventando una “nuova Libia”. E l’Italia?
La crisi tunisina è una tragedia annunciata ahimè. E’ figlia della rinuncia dell’Ue all’indomani della caduta di Ben Ali di aiutare quel popolo a rafforzare la propria statualità e sostenere socialmente il passaggio verso la democrazia. Vorrei ricordare che – a fronte del caos libico – la Tunisia si era dotata di una Costituzione avanzata, figlia di un compromesso virtuoso tra forze secolarizzate e il partito religioso moderato Ennhada. Purtroppo la crisi economica ha travolto tutto, causa anche l’ottusità delle politiche sui prestiti delle grandi agenzie internazionali, FMI compreso. Oggi la situazione è destabilizzata, ma rispondere con la logica dei muri e dei blocchi navali non ha alcun senso. Non è solo crudele, è semplicemente irrealistico. Serve una Mare Nostrum europea come abbiamo chiesto: nel Mediterraneo si gioca un’idea di civiltà, non solo una politica migratoria. In Israele sta succedendo una rivoluzione. La destra estrema di Netanyahu è costretta a fermare il suo golpe dolce che metteva sotto scacco la Corte suprema. Impressionano le piazze che uniscono una società molto divisa e frammentata, che forse riapre una prospettiva anche per il processo di pace bloccato da anni. Quando torna in Israele un protagonismo democratico capace di frenare un potere politico asfissiante anche i diritti civili dei palestinesi possono tornare al centro dell’agenda.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.