Generale Mori, sono in libreria due suoi testi. C’è stato bisogno di riscrivere la sua verità sulla trattativa Stato Mafia, non bastavano le sentenze?
«No, non mi bastava la verità processuale, anche se con l’ultima spero siano finiti i dubbi sulla linearità mia e dei miei ufficiali. In 15 anni sono stato sottoposto a un fuoco di fila di considerazioni negative che pensavo di non meritare; qualsiasi attività umana può essere censurata, a maggior ragione la mia personale che indago su altre persone, quindi una valutazione è fondamentale. Ma non ho accettato il giudizio da parte di alcuni magistrati su un non reato, perché in 20 anni ammetto che possa esserci chi non condivide magari la mia tecnica operativa, ma che ci fossero dubbi su da che parte stessero Mori, De Donno e gli altri, questo non lo consento. Non ammetto che anche qualche magistrato che mi ha conosciuto possa dire che ero in combutta con un bieco assassino come Toto Riina».

Eppure taluni contestano addirittura le sue assoluzioni con formula piena.
«Faccio una constatazione per chi si intende poco di norme penali. L’assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto significa che io, per ragioni del mio ufficio, dovevo interessarmi di quella vicenda e che non ho commesso atti di rilevanza penale. Quindi ero già assolto pienamente. Ciò che mi ha soddisfatto nella valutazione della Cassazione è che il magistrato deve applicare leggi fatte da un altro potere, quello politico, e non può interpretare né emettere un giudizio che prescinda dai dati di fatto. Il magistrato non fa la storia, applica la legge che altri hanno formulato».

Ci sarà qualcuno che dovrà preoccuparsi per l’uscita di questi due libri?
«Abbiamo scritto Mafia e Appalti mettendoci nei panni del lettore raccontando solo i fatti, pensando che fosse lui a dover dare un giudizio. Se avessimo scritto un libro in cui davamo delle spiegazioni sul nostro operato avremmo fatto un servizio non corretto. Quindi si deve preoccupare chi ha steso un giudizio facendosi precedere dall’ideologia, e un magistrato questo non lo può fare».

Come si vive 20 anni sotto processo?
«Io non sono stato un imputato normale. Quando sono stato coinvolto conoscevo i fatti di cui ero stato anche protagonista e le carte su cui i magistrati lavoravano, se qualche documento mi mancava i miei me lo avrebbero reperito, perché ho avuto sostegno non solo dai miei dipendenti ma da tutta l’arma dei Carabinieri. Ho scelto l’avvocato non per il nome più o meno roboante ma per capacità tecniche e conoscenza del fenomeno. Avevo i soldi per andare a Palermo alle udienze, tutto questo fa di me un imputato fuori dal contesto generale. Se io fossi stato il solito quisque de populo coinvolto in una vicenda che conosce vagamente, di cui non ha le carte, col primo avvocato che gli consigliano, sarei stato travolto. Giorni fa con Gaia Tortora facevamo un parallelo tra il caso del padre e il mio. Io mi sono visto arrivare da lontano la piena che poteva travolgermi, Enzo Tortora se l’è trovata improvvisamente addosso come una secchiata di acqua fredda, la differenza è enorme».

Lei ha dichiarato di credere ancora nella giustizia. Dopo un calvario di 20 anni come ci si riesce?
«Io ho frequentato i tribunali e i magistrati requirenti, la gran parte delle persone sono corrette, preparate ed equilibrate. Lo dimostra il fatto che una procura si è scagliata contro di me e tre complessi di giudici mi hanno assolto. Quindi bisogna avere fiducia nella giustizia perché il mondo non è ingiusto, è solo lento. A volte arriva in ritardo, magari dopo la morte di un innocente punito ingiustamente, ma normalmente arriva in tempo per dare soddisfazioni e umiliare chi ha attaccato determinate persone senza motivi seri».

Il processo Trattativa è stato anche molto mediatico. Secondo lei aveva ragione Sciascia quando parlava di professionisti dell’antimafia?
«Sciascia ce l’aveva con qualche magistrato. Io ho trovato più professionisti dell’antimafia tra i giornalisti che tra i magistrati. Tra questi c’è chi, attraverso le inchieste, si fa propaganda, ne ho conosciuti tanti che sfruttavano indagini per autocelebrarsi. Ma quello che è avvenuto tra i cronisti giudiziari in questi 30, 40 anni di lotta alla mafia è qualcosa di avvilente. Questa gente si è rifiutata di fare il giornalista, ha trasmesso le veline dei magistrati alla pubblica opinione. Il giornalista deve interpretare notizie che si va a cercare per poi trasmetterle, non deve trasportare la verità già confezionata da altri sui giornali, perché questo non è giornalismo».

A sentirla si ha la sensazione di una grande serenità interiore e però poi leggiamo che lei “corre per vendicarsi”.
«A volte, come diceva un mio vecchio maresciallo, mi faccio precedere dal muscolo, nel senso che certe cose le dico e le penso per metà. È una battuta la mia. Mi auguro solo che qualcuno, dopo aver letto questi libri sia costretto a prendersi tanto Maalox».

Anche in politica c’è chi ha preso tanto Maalox negli anni passati.
«Penso di sì, dovrebbe essere una dotazione individuale di molte persone».

Qual era il suo rapporto con Falcone e Borsellino?
«Conoscevo molto bene Giovanni Falcone, un po’ meno bene Borsellino. Però dei due avevo una concezione e una visione molto precisa. Rappresentavano due tipologie classiche del siciliano, Falcone era quello di astrazione spagnoleggiante, distaccato, rigido, di difficile contatto ai primi incontri. Borsellino era invece il siciliano di astrazione araba, molto aperto, ti chiedeva subito la sigaretta, ti abbracciava. Due tipi così diversi ma proprio per questo forse cosi uniti. Erano due mondi entrambi significativi e belli ma molto diversi».

Perché qualcuno ha avuto tanta fretta nell’archiviare l’inchiesta su mafia e appalti?
«Io dò la mia interpretazione chiaramente, tra l’altro sono anche parte in causa. Mafia e Appalti andava a colpire non solo la criminalità, ma coinvolgeva anche imprenditoria, politica, e, restando alla Sicilia, la medio alta borghesia fatta di un mondo abbastanza ristretto di correlazioni, conoscenze, interessi. Colpendo un sistema in cui non c’era solo la mafia ma quelli che allora erano considerate vittime della mafia, cioè politici e imprenditori, abbiamo scagliato un masso nello stagno. E da una parte c’è stata una reazione, mentre per quelli che non avevano nessuna collusione con la mafia un senso di disagio a capire cosa stava accadendo, e quindi c’è stato un contrasto alla nostra iniziativa».

La mafia di oggi è certamente diversa da quella di 30 anni fa. Secondo lei è più forte o più debole?
«La mafia di oggi è più pericolosa. Quella dei Riina, dei Provenzano, che io ho contrastato, era la cosiddetta mafia militare, se non andavi bene ti sparava. E quindi era chiaro il modo di affrontarla. La mafia di oggi la definisco più una cultura, un sentire mafioso. Un modo di rapportarsi ai fatti concreti con un approccio deviato. È una cultura pericolosissima perché si tarda a comprendere. Non è più la mafia del possesso del territorio e dei beni, è una mafia di tipo economico. L’aveva già intuito Falcone quando nel 91 disse “la mafia è entrata in borsa”, stava cioè passando da un sistema parassitario, dal pizzo, dalla cointeressenza e dalle percentuali sugli appalti, alla mafia che gestiva gli appalti. Per questo sostengo l’idea di un’intelligence economica settoriale. In Italia su questo siamo molto indietro, questa è l’intelligence del futuro, e lo è anche nel contrasto alla mafia».

Qualche giorno fa è uscita la notizia per cui la famosa agenda rossa di Borsellino potrebbe trovarsi a casa dell’ex questore La Barbera. Secondo lei è verosimile?
«Potrebbe essere possibile, La Barbera potrebbe aver avuto accesso a questo tipo di documenti. Ben venga se si ritrovasse quell’agenda, ci sarebbero tante notazioni che forse farebbero un po’ di chiarezza, ma non le ritengo determinanti. Se Borsellino avesse potuto avere documentalmente notizie da trasmettere alla magistratura competente sarebbe corso a farlo, lì era ancora alla ricerca di elementi utili ma non aveva ancora una verità che sovvertisse il sistema».