L'intervista
Intervista a Maurizio Martina: “Alla sinistra manca l’utopia, i cuori non si scaldano a colpo di tweet”

Maurizio Martina, 42 anni, parlamentare Pd, è stato segretario reggente del Partito Democratico a seguito delle dimissioni di Matteo Renzi e apprezzato ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, con delega all’Expo, nei governi Renzi e Gentiloni. Quella rilasciata al Riformista è una intervista di “testa” e di “cuore”, che tocca corde che vanno al di là del freddo ragionamento politico, rinnovando ricordi personali.
Partiamo dalla giustizia. In Calabria, il gup di Catanzaro ha assolto l’ex governatore Pd Mario Oliverio dall’accusa di corruzione e abuso d’ufficio, perché “il fatto non sussiste”. Per quelle accuse, Oliverio fu costretto alle dimissioni e non fu ricandidato dal partito. Prosciolti dall’accusa anche la deputata dem Enza Bruno Bossio e l’ex consigliere regionale Nicola Adamo. Una riflessione politica non è lesa maestà ai danni del procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri…
Prima di tutto sono contento per loro, immagino quanto abbiano sofferto per la situazione. Si sono difesi nel processo e la giustizia ora ha parlato. Sul piano politico non c’è dubbio che tutto ciò ha avuto un impatto pesante. Del rapporto tra giustizia e politica si continuerà giustamente a discutere molto perché è uno dei nodi più delicati del sistema. In termini generali, penso che una riflessione seria in particolare sulle garanzie, sia necessaria. Aggiungo che io sono da sempre convinto che vada affrontata con pacatezza la questione della separazione delle carriere. So che è una discussione difficile, che scatena spesso tifoserie e giudizi estremi, ma la ritengo doverosa.
Goffredo Bettini ha dichiarato: «Qualcuno mi ha definito nostalgico pensando di offendermi. Non credo di esserlo, perché non mi rifugio nel passato come consolazione rispetto a un presente che non mi soddisfa. Piuttosto, considero la nostalgia una carica enorme di cambiamento se si avverte come la speranza, l’anelito, la passione che un tempo ti ha attraversato». In questa chiave, e guardando all’approssimarsi del centenario della fondazione del Pci, si offende se la definiscono un “nostalgico”?
No, perché non penso di essere nostalgico. Nel mio percorso di questi anni sento tutta l’influenza di una grande storia che io ho solo sfiorato, perché faccio parte della prima generazione dell’Ulivo. Ma non rinuncio affatto a inserirmi, con grande umiltà, dentro un solco storico che è quello che ha a che vedere con la grande storia del Partito comunista italiano. Ho “respirato” la mia piccola sezione di paese, in provincia di Bergamo, un avamposto di questa espressione straordinaria di popolo che era il Pci. L’ho “respirata” in un passaggio di grande sofferenza e trasformazione, perché io arrivai proprio quando il Pci si trasformava in Pds, il Pds in Ds. Ricordo di aver passato tanto tempo a studiare, a recuperare parte di quella storia. Da quando decisi con altri ragazzi di riaprire quella sezioncina, che era diventata la sede dei Democratici di sinistra e poi dell’Ulivo, e da lì iniziai a frequentare la sede provinciale dei Ds, ho cercato di conoscere tutto il percorso che anche nel mio territorio ha fatto quella grande storia. Anche solo avere incrociato quella transizione mi ha dato tantissimo. Ciò che mi ha acceso la passione per questa cosa straordinaria e faticosa che è la politica, e in essa la militanza a sinistra, è vedere che cosa sono state queste grandi forze popolari, di massa, per l’alfabetizzazione gentile di un popolo. Il dibattito non era la trasmissione della linea politica dall’alto in basso, ma un momento di formazione, condivisione, di costruzione di una comunità. Una scuola di cittadinanza: questo è stato quel partito. Persone di estrazioni umili che diventano giganti della responsabilità civile ad ogni livello, grazie a un percorso di militanza. Gente che è arrivata da operaio a fare il parlamentare, ad occuparsi di sicurezza sul lavoro. Mi viene in mente Antonio Pizzinato, ma quanti ce ne sono che hanno fatto la storia della sinistra italiana. Mi piace pensare che questa esperienza collettiva possa essere d’insegnamento anche per l’oggi. Non è solo una storia.
Nei suoi anni d’oro la sinistra, in particolare il Pci, esercitava una egemonia culturale in settori importanti della società, ben oltre la politica. Perché oggi la sinistra non affascina, soprattutto le giovani generazioni?
Io avverto, come altri, la mancanza di un’utopia. Di un messaggio di cambiamento profondo, non effimero ma di senso. Di un senso di marcia che indichi una prospettiva. Soprattutto nella fase storica che abbiamo attraversato dopo il crollo del muro di Berlino, con la prima fase della globalizzazione, questa capacità di mobilitare collettivamente gli sforzi di persone attorno a un riformismo radicale, cioè un’utopia concreta di cambiamento possibile, è mancata. È mancata una lettura adeguata dei cambiamenti della società. A noi è mancata e sta mancando ancora una presa della carne viva della vita delle persone che vogliamo rappresentare. Ci manca collegare l’attenzione ai bisogni veri delle persone con la capacità di indicare una rotta che non sia illusoria ma ambiziosa, che muova le coscienze e scaldi le teste e i cuori delle persone. Uno dice: l’ideologia. Abbiamo attraversato una lunga stagione in cui bisognava per forza dire che non si doveva essere ideologici. Ma, se non l’ideologia, l’idealità serve. L’idealità è per me la forza di valori che muovono idee che producono prospettive e impegni collettivi. In un’epoca come questa, dove siamo schiacciati sull’individuo e sulla “presentizzazione”, dove tutto deve essere misurato nell’istante, questa capacità di indicare una prospettiva è la vera questione irrisolta. Nel fare questo ragionamento, io non mi sento nostalgico. A me interessa ricavare anche dal passaggio che stiamo vivendo oggi le basi di un progetto che riesca a fare questo cambio di passo. Elaborare e mettere in pratica un messaggio comprensibile, che dica che le disuguaglianze non sono un destino, che affermi la centralità dei diritti universali per tutti, a prescindere dalla condizione di partenza. Certo bisogna fare i conti con le due grandi rivoluzioni del nostro tempo: quella digitale e quell’ambientale, spostare in avanti questa asticella. Non voglio dire che dobbiamo tornare agli scritti di Karl Marx, ma l’evoluzione del capitalismo e del sistema economico finanziario, la sua connessione con la grande sfida digitale, ha bisogno di un pensiero critico. Senza scomodare Marx, magari avessimo la forza di proporre letture come Il capitalismo della sorveglianza di quella grandissima analista contemporanea che è Shoshana Zuboff.
Abbiamo parlato di utopia, idealità. Eppure non si sfugge alla sensazione, ribadita anche in queste ore, che la politica si riduca a manovra di palazzo, all’interrogarsi vere intenzioni di Renzi o le contromosse di Conte. Ma questa politica, così praticata e raccontata, non si fa respingente?
Quando la politica diventa solo la manovra nel palazzo, la battuta e contro battuta, l’esasperazione di una risposta via twitter, un like su un post, avverto tutto il vuoto che c’è. La distanza con ciò che può interessare un cittadino. Non sono nato oggi e penso che anche quando c’erano le grandi ideologie c’erano pure le manovre di palazzo. Ma nessuno si è mai messo in testa che queste manovre potessero sostituire il senso profondo di quella cosa grande che chiamiamo ancora politica. Lo dico anche pensando ai 100 anni di quella storia. Non è un guardarsi indietro, evocare quei modelli, pensare che tornino, ma provare a capire che dentro quelle storie, anche diverse dalla mia – quella della Dc ma anche di altri grandi partiti – si è costruito un Paese intero, e ricavare qualche lezione buona per il nostro tempo. A maggior ragione in questo tempo non servono ultimatum. Così come non si può stare in stallo. Chi nell’agosto del 2019 ha dato vita a questa esperienza di governo ha il dovere ora più che mai di rilanciarne la prospettiva comune. A partire dalla fase applicativa del Recovery Fund. Certo che se noi pensiamo che si possa scaldare il cuore, accendere la testa e richiamare l’impegno di tante persone con l’ultimo tweet o like o la battuta, non ne usciremo.
Un discorso contro l’abuso dei social?
Una forza politica al passo con i tempi deve capire come si possano attivare le energie delle giovani generazioni con le nuove tecnologie, non rinunciando ad una sfida di modernità negli strumenti, nei linguaggi, nei tempi, a patto che non sia effimera, che non sia un circo mediatico permanente, ma qualcosa di più profondo. E qualche segnale ce l’abbiamo. Se è vero che abbiamo oggi una politica tutta schiacciata sul chiacchiericcio, è altrettanto vero che c’è anche tanta buona politica fuori da quei palazzi, che dobbiamo riconoscere e valorizzare. C’è una politica con la p maiuscola nell’esperienza di tantissimi ragazzi che fanno volontariato, nel terzo settore. Il grande tema di un partito a sinistra oggi, e quindi anche del Pd, dovrebbe essere spalancare porte e finestre a queste persone. Non è retorica, perché parlo della mia storia. Di chi è nato in una famiglia operaia, di persone non militanti, e che con l’Ulivo e il Pd ha avuto una possibilità per esercitare questo tipo d’impegno. Mi auguro che tanti ragazzi possano avere la mia stessa possibilità. Ma bisogna offrire loro il terreno giusto su cui esercitarla, riuscendo a coniugare idealità e concretezza.
A proposito di concretezza: il Pd parla ancora agli operai?
Occorre tornare a capire qual è la frontiera vera su cui costruire un impegno a tutela di chi non è garantito nel lavoro. Sto seguendo la situazione di un’azienda in provincia di Bergamo, la Sematic: un’azienda metalmeccanica storicamente insediata qui, che è in grande difficoltà perché la proprietà, fondo tedesco, sembra aver deciso di portarla in Ungheria. Quegli operai ti chiedono di spiegargli perché un’azienda super produttiva, che è in ordine nei bilanci, rischia di chiudere perché la sua proprietà decide di spostare la produzione non in Cina, non in Brasile, non in Canada ma in Ungheria. E se non riesci tu a dar loro una risposta, arriva il populista di turno che dice: basta delocalizzazioni, e coglie un senso vero, dando risposte sbagliate certo, ma lo coglie. Un senso che la sinistra deve saper rappresentare, orientare. Perché quegli operai sono la nostra gente, la nostra storia, parte del nostro futuro.
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