Bergamo non ha i barbari alle porte. Grandi e grossi sì, scorbutici forse. Ma barbari no. A Piazza Vittorio Veneto, quartier generale di Ubi Banca, lo sanno. Ma di fronte a un’offerta non sollecitata e ritenuta “incongrua” si deve pur alzar la posta. Così si è attrezzata una difesa che ha come arma principale la promessa agli azionisti di valori che possano competere con quelli proposti dai “predatori”. Nella speranza di un rilancio, ritiene buona parte della comunità finanziaria. Il resto, sono parole. Parecchio dure, quelle del Cda di Ubi. È comprensibile: l’offerta pubblica di scambio (Ops) di Intesa Sanpaolo è arrivata tra capo e collo all’ad Victor Messiah nel febbraio scorso appena un giorno dopo la presentazione del piano industriale. Telefonata secca del numero uno di Cà de Sass Carlo Messina. In genere non si fa, tra banchieri. Ma l’istituto orobico-bresciano non ha un vero e proprio azionista di riferimento. A chi doveva chiedere il permesso Messina? Avrebbe comunque scontentato tutti. O almeno mezza Lombardia. Quanto ai tempi, Intesa Sanpaolo aspettava solo la conferma che il piano industriale fosse “stand alone”, cioè che non prevedesse aggregazioni. Opportunismo costruttivo.

Al di là delle parole e dei risentimenti, la difesa di Bergamo non convince gli analisti. È il caso dei report di sei fra banche d’investimento e sim visti dal Riformista. Magari è una congiura, ma in genere si chiama consensus. Fidentiis, in particolare, si definisce «scettica» sull’aggiornamento del piano illustrato da Messiah il 3 luglio. E stigmatizza il fatto che a un taglio – causa coronavirus – dell’utile atteso per il 2022 (è stato rivisto al ribasso del 15% a 562 milioni di euro) corrisponda «in modo controintuitivo» un forte aumento dei dividendi (840 milioni in tutto, 8% annuo di rendimento per cedola ).«Stentiamo a credere che i regulator daranno facilmente via libera», si legge nell’analisi. Il riferimento di Fidentiis è alla vigilanza della Bce, che sui dividendi ha l’ultima parola. A Ubi «non risulta» che Francoforte abbia acceso un faro sul nuovo piano. No comment dall’Eurotower. Dove si fa presente che la metodologia del Supervisory Board presieduto da Andrea Enria prevede comunque di verificare la sostenibilità triennale dei modelli di business e delle variazioni apportate negli aggiornamenti agli stessi. Ovviamente, anche riguardo alla politica dei dividendi.

Ma alla fine chi deve decidere se aderire o meno all’Ops sono gli azionisti, mica gli analisti. Cattolica, che ha l’1% del capitale, ha già detto sì. La fondazione Crc, che detiene il 5% e fa parte del patto Car, sembra indirizzata diversamente: «L’offerta come attualmente prospettata non è conforme alle nostre attese», è per ora il verdetto del suo Cda, che ha esaminato insieme all’advisor SocGen i termini dell’affare. Una ulteriore valutazione è rimandata al prossimo Consiglio. Gli altri grandi soci non hanno scoperto le carte ma probabilmente stanno per farlo: la Fondazione Banca Monte di Lombardia, che ha il 3,9% del capitale, e attraverso il suo presidente Aldo Poli si era detta «disponibile» a valutare la proposta di Intesa «auspicando» un rilancio, potrebbe decidere nel consiglio di amministrazione di questo venerdì, secondo quanto ha appreso l’agenzia Ansa. In quello di giovedì scorso, nessuna decisione formale era stata presa. Intanto, tra gli investitori istituzionali e nel retail si registra molto interesse, anche se le adesioni restano limitate.

Il termine per conferire le azioni è il 28 luglio. Molti aspetteranno l’ultimo giorno o quasi. E il motivo è sempre quello: si spera in un rilancio. Possibilità sempre categoricamente esclusa da Carlo Messina, peraltro. Improbabile, secondo gli addetti ai lavori, che l’Ops di lntesa non raggiunga il 50% più un’azione, facendo così scattare l’incorporazione della rivale. Assai meno scontato che venga centrato l’obiettivo della fusione, per la quale servono il 66,7% dei voti. Secondo Ubi, se si resta nella zona grigia tra le due soglie saranno inevitabili conflitti tra le fondazioni presenti nel suo azionariato, soprattutto riguardo alla vendita di oltre 500 sportelli bancari a Bper, come prefigurato da Cà de Sass. Da dove si risponde che il problema non esiste, perché anche con la maggioranza semplice Intesa nominerebbe il Cda assicurando il controllo gestionale alla capogruppo, e quindi potrebbe procedere a cessioni considerate strategiche nella creazione di valore per tutti gli azionisti.

Dal punto di vista del sistema bancario italiano, secondo Ubi un successo dell’Ops di Intesa farebbe venire a mancare un’adeguata competizione. L’ad Messiah cita un rapporto della società di sondaggi Swg, secondo cui oltre il 60% delle imprese vuole poter scegliere tra più banche sui loro territori. Il presidente di Intesa Gian Maria Gros-Pietro ha ricordato che, al netto del ramo d’azienda che intende cedere a Bper, il gruppo in caso di successo dell’Ops avrà una quota del 19% dei depositi e del 21% dei prestiti. «In Francia, ad esempio, Credit Agricole ha una quota del 27% sui depositi e del 37% sui mutui. In Spagna il Banco Santander detiene il 20% circa, sia sui depositi sia sui prestiti», ha scritto Gros-Pietro in una lettera al Corriere della Sera.

Certo, in Italia un terzo polo a controbilanciare il bipolarismo Intesa Sanpaolo-Unicredit sarebbe utile. E Ubi ha provato molto seriamente a crearlo, con Bpm. Ma non è andata. Ormai l’aggregatore potrebbe diventare Mps, con l’uscita del Tesoro entro il 2021 confermata nei giorni scorsi dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Bpm però smentisce ogni contatto con Siena. In generale, gli ostacoli finanziari, industriali e legali che al momento permangono allontanano nel tempo l’appetibilità di grandi accordi che coinvolgano Piazza Salimbeni. Il terzo polo non c’è, né ci sarà a breve.

Nel frattempo, gli istituti italiani, che avevano impiegato anni ad alleggerirsi dei crediti inesigibili accumulati a valle del crac Lehman nel 2008-2009 e poi nella crisi del debito sovrano tra il 2011 e il 2013, rischiano di essere schiacciati da una valanga: il credito deterioratosi per gli effetti economici della pandemia potrebbe ammontare a 100 miliardi – secondo il colosso della revisione conti Pwc. L’esposizione alle piccole e medie imprese che caratterizza il nostro sistema creditizio rende le cose più complicate: il settore delle Pmi è in ginocchio, dopo il lockdown. Le banche con capitali e redditività limitati potrebbero non farcela, hanno detto il 15 aprile scorso i responsabili della vigilanza e dalla stabilità finanziaria di Bankitalia alla Commissione parlamentare d’inchiesta banche e finanza. La mossa di Carlo Messina nel febbraio scorso può essere sembrata sgarbata. Ma se aveva un senso allora – e sembra passato un secolo – oggi, al tempo del coronavirus, ne ha ancora di più.