Il suo moralismo aprì la strada ai tic populisti
Intuizioni e limiti della visione politica di Enrico Berlinguer: luci e ombre del segretario del PCI
La figura di Enrico Berlinguer è avvolta dalla nostalgia di un tempo che non c’è più, il tempo di una politica seria e di politici che miravano a determinare, e non a seguire, l’opinione pubblica. Una politica i cui soggetti erano partiti con una identità forte, formatasi nella storia del paese, che evolvevano con grande lentezza, attraverso dibattiti colti ma anche duri scontri (a volte, soprattutto nel caso del Partito comunista, sottotraccia). E certamente Berlinguer fu questo, soprattutto negli anni Settanta, gli anni delle vittorie e dei grandi progetti.
Non privi, gli uni e le altre, di aspetti contestabili: la vittoria sul divorzio raggiunta dopo aver tentato in tutti i modi di evitare il referendum; il tema dell’austerità, che oggi qualcuno legge in chiave ecologista ma era una ripresa del vecchio anticonsumismo comunista, come copertura ideologica per la politica economica di crisi; il compromesso storico, con tutte le sue ambiguità e oscurità. Comunque proposte politiche forti, che definivano l’identità del Partito in un periodo di grandi mutamenti sociali e culturali. Ma Berlinguer fu anche, negli ultimi anni, l’uomo di una transizione iniziata dopo la morte di Moro e la fine del progetto di unità nazionale, nella quale si posero alcune basi della trasformazione della politica che si affermò negli anni Novanta e dura ancora oggi. Dopo la “seconda svolta di Salerno”, quando liquidò la strategia del compromesso storico, si concentrò, anche incontrando opposizioni nel gruppo dirigente del suo partito, su temi piuttosto vaghi, come l’alternativa democratica e la questione morale.
Perché vaghi? Parlare di alternativa democratica avrebbe avuto un senso preciso se avesse contemplato una apertura al Psi. Ma sappiamo che Berlinguer diffidava profondamente di Craxi, accusato dai comunisti di avere operato una mutazione genetica del Partito socialista, e considerato uomo di destra, fino al punto da escludere anche solo la possibilità di sostenere un suo governo. Per la verità diffidenze e ostilità non mancavano certamente anche dall’altra parte. Oggi possiamo dire che la storia italiana avrebbe avuto tutt’altro corso, se i due partiti della sinistra fossero riusciti a costruire un’alleanza per il governo nazionale, come peraltro facevano da sempre nei governi locali.
Quanto alla questione morale, esposta nella sua versione più nota nella intervista a Scalfari del 1981, può apparire un’idea molto attuale, perfino profetica. Ma va guardata più da vicino. Nel porre l’accento sulla questione morale Berlinguer coglie due punti importanti. Il primo è che la politica deve avere un fondamento etico, non può essere solo ricerca del consenso e del potere. Il secondo punto riguarda l’occupazione dello Stato da parte dei partiti, una degenerazione particolarmente grave, che, come si vedrà di lì a poco, ha effetti profondamente corruttivi sul sistema politico ma anche sulla società intera. In tutto questo c’è un aspetto convincente. Lascia però perplessi il rapporto che Berlinguer istituisce tra la questione morale e la “diversità” dei comunisti. Quando Scalfari nell’intervista gli chiede perché dilaga il malcostume, il segretario del Pci risponde: perché noi siamo tenuti fuori dal governo.
Lo stesso intervistatore resta stupito: una questione così strutturale può essere ascritta soltanto all’esclusione dei comunisti? La risposta sta nell’idea della diversità, secondo la quale i comunisti, rispetto agli altri, sono a priori dotati di un più forte fondamento etico perché investiti di un compito storico di realizzazione della giustizia sociale. O, nei classici termini marxisti, perché interpreti e portatori del movimento storico verso il socialismo. Del resto Berlinguer non seguitò sempre a parlare di “fuoriuscita dal capitalismo”? Qualcuno sostiene che si trattava di una frase propagandistica, ma questa è una giustificazione debole. Il pensiero dei comunisti, compreso Berlinguer, era un pensiero forte. Parlare di fuoriuscita dal capitalismo significava riconnettersi alla critica del capitalismo della tradizione marxista e leninista, ed era un altro modo per affermare la distanza dalla socialdemocrazia: una distanza che non venne mai meno, nonostante i rapporti coltivati con i grandi socialisti europei, Brandt, Palme, Mitterand. L’insistenza sulla diversità andava incontro a un senso comune del partito, rassicurandolo dopo la delusione di fine anni Settanta e il fallimento del compromesso storico.
Ma rappresentava un ritorno indietro rispetto a quella proposta che, per quanto criticabile, era comunque una proposta strategica. In realtà l’accento sulla questione morale e sulla diversità rivela l’assenza di strategia e il conseguente isolamento del partito. Ma soprattutto il discorso di Berlinguer lascia scoperto il piano istituzionale, non si traduce in nessuna proposta di riforma della regolamentazione dei partiti, che è il problema che ci portiamo dietro da Tangentopoli in poi. Pensiamo alla questione del finanziamento o a quella degli statuti, cioè della mancata attuazione dell’art.49 della Costituzione. Né Berlinguer né il Pci nel suo complesso hanno mai avuto una sensibilità per le riforme istituzionali, delle quali il Paese aveva e ha più che mai bisogno. Non trovando espressione in progetti di riforma, questi due temi – questione morale e diversità – sono stati ereditati dai movimenti populisti.
Qualcuno ha sostenuto che Berlinguer è uno dei padri dell’antipolitica. Senza arrivare a tanto, non possiamo non vedere come, in modo forse paradossale e certo da lui non voluto e non immaginato, l’ultimo Berlinguer sia stato un uomo di transizione dalla vecchia politica a un nuovo universo, dove il posto dominante è stato preso dall’appello diretto del leader ai seguaci, dalla sottolineatura di una identità “altra” rispetto al sistema, dalla denuncia moralistica. Un universo populistico nel quale non poteva esserci posto per il Partito comunista – e per nessuno dei partiti della Prima Repubblica.
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