Ci voleva l’arte neo-neorealistica di Matteo Garrone per farci capire una cosa che dentro di noi già sappiamo tutti: e cioè che il fenomeno dell’immigrazione africana è ineluttabile.

Se non basta la cronaca di ogni giorno da anni ecco che il cinema è capace di fare il miracolo di illuminare la realtà meglio dei fatti, sta esattamente qui la forza di questo nuovo neorealismo in grado non di sfornare informazioni documentaristiche né tantomeno suggestioni di propaganda ma di portare fuori ciò che è dentro l’animo degli uomini nel momento in cui questo processo dal dentro al fuori “si fa Storia”.

Su “Io capitano” questo giornale ha già ospitato un’ottima critica di Maddalena Messeri dove giustamente si è parlato di “moderna Odissea” a proposito dell’allucinante viaggio che il protagonista Seydou e suo cugino compiono per raggiungere la loro Itaca, cioè l’Italia, viaggio che Garrone fotografa con intensità tale da rendere evidente la vacuità di coloro che pensano che il fenomeno sia destinato a fermarsi.

D’altronde lo stiamo vedendo in queste ore a Lampedusa. Arrivano, e arriveranno. Nulla può fermare la ricerca della libertà, nulla può spegnere l’ansia di vivere in un modo e in un mondo migliore. L’idea di fermare le partenze ha un senso se intesa nel senso di fare tutto il possibile per rendere vivibile la vita in quei mondi, ma presa alla lettera non ha senso. Non si può fermare l’Uomo.

Nessuno nel film è in grado di far cambiare idea a Seydou, non il deserto, non le percosse, non la prigione, non l’abbrutimento. Proprio come Ulisse, l’eroe di Garrone va avanti, sempre avanti, a qualunque costo: proprio perché la libertà (come condizione della dignità) non ha prezzo, nemmeno quello della vita. Il cammino della speranza non è forse quello di Cristo? Sono cose che dovremmo sapere, che fanno parte della nostra vita, della nostra storia. Noi italiani sappiamo che non si potevano fermare i nostri meridionali che negli anni Cinquanta e Sessanta risalivano la penisola in quei treni caldissimi o gelati, affastellati tra valigie con lo spago e un po’ di roba da mangiare, bambini urlanti e vecchi stremati, pochi soldi in tasca e tanta sete, ma ecco Milano, ecco Torino, le Lampedusa di ieri, ben altra sofferenza fisica quella degli africani, certo, ma lo stesso ardore, le stesse lacrime, la stessa speranza negli occhi.

Luchino Visconti, che fu anche un neorealista, scelse una famiglia lucana, i Parodi, per raccontare quel nostro Sud che sbarcava nella nebbia fredda di Milano senza sapere nulla di cosa sarebbe successo: ma erano giunti, infine, e questo era molto, se non tutto. Cominciava la vita. Rocco Parodi (solo Visconti poteva scegliere la bellezza aristocratica di Alain Delon per la parte di un immigrato lucano), la madre, i suoi quattro fratelli: i senegalesi di ieri. Poi “Rocco e i suoi fratelli” dopo un gran scorrere di situazioni neorealiste non lontane dal cinema francese degli anni Trenta, che d’altronde Visconti aveva vissuto da vicino, vira verso la tragedia greca e diventa un’altra cosa, l’eterno gioco fra la vita e la morte.

Ma il giovane Seydou non ha forse la stessa forza d’animo di Rocco? Persino lo stesso sorriso dolente, gli occhi che si sbarrano e poi si addolciscono, e la rabbia che sbuffa l’anelito del riscatto. Seydou è invincibile, come l’amore fraterno di Rocco: ce la faranno entrambi, e proprio grazie ad una bontà che non si può non dire cristiana, perché Seydou salva se stesso e i suoi fratelli proprio come cerca di fare Rocco.

Dopo aver visto “Io capitano” si esce dal cinema un po’ diversi da come vi si era entrati, si comprende meglio che la chiacchiera specie destrorsa (“non devono partire!”) non ha semplicemente senso, che appena pronunciata è già spazzata via dalla realtà. La potenza del cinema, del cinema di questo livello, perciò va non solo ammirata ma anche, come dire, ringraziata, perché vale più di centomila discorsi vuoti e restituisce alla Storia la sua reale dimensione di tragica dignità.