È molto complicato tradurre a parole le emozioni che “Io Capitano”, il nuovo film di Matteo Garrone, porta con sé. Ma se una recensione ha ancora un senso, è proprio quello di aiutare lo spettatore a capire, scegliere, di incuriosirlo senza svelare troppo. Dunque, incamminiamoci insieme in questo percorso, che è iniziato in sala (il film è appena uscito) e che passando da queste pagine arriva fino a voi. Sei un ragazzo, hai sedici anni, vivi in Senegal e con tuo cugino non vedi l’ora di scappare. Una casa ce l’hai, l’amore della tua mamma e delle tue sorelle anche, vai a scuola, hai poco ma non ti manca nulla. C’è però un richiamo forte con cui sei cresciuto e che arriva incessantemente attraverso la tv, la radio, il tuo smartphone e si chiama Occidente.

Ami tutto ciò che l’Europa rappresenta, per questo il tuo futuro lo immagini lì. E lo sogni forte, con l’ingenuità di un bimbo, proiettandoti in un’immagine irreale: vuoi diventare famoso, un rapper o un calciatore, vuoi essere ricco e libero e pensi che questo possa accadere solo una volta arrivato in Italia. Non importa se ti dicono che stai sbagliando, non importa se provano a disilluderti. Tu vuoi partire. E lo fai proprio con tuo cugino, zaino in spalla e via.

Così, dalla scelta avventata di due adolescenti di Dakar, nasce una moderna Odissea, un viaggio all’inferno raccontato in uno dei più intensi film realizzati in Italia negli ultimi anni. Perché grazie alla storia di Seydu, così si chiama il protagonista dagli occhi liquidi di “Io Capitano”, entriamo in un deserto umano di sabbia e violenza, un labirinto di vento senza scorciatoie, da attraversare con indosso solo una maglietta da calcio logora e un paio Nike.

La contraddizione di due mondi, Africa e Europa, sta anche in questi piccoli dettagli. Il punto di vista si ribalta, noi che nei decenni abbiamo visto gli arrivi dei profughi sui barconi, assuefatti dai notiziari che elencano gli sbarchi – echeggiano ormai vuote nelle nostre case le parole dei TG: “Lampedusa, nella notte arrivati in 130” – ora possiamo vedere che dietro a quel numero ci sono delle persone, con la loro valigia di dolore e speranze.

Per questo “Io Capitano” è un film coraggioso, perché senza pietismi scava nella realtà, nelle esperienze vissute in presa diretta dai migranti. E perché anche grazie alle inaspettate incursioni oniriche, come zucchero a velo su una torta al cioccolato, ci offre un racconto che parla direttamente alla nostra anima. Quello che Vittorio De Sica ha fatto con “Ladri di Biciclette”, quello che Roberto Rossellini ha fatto con “Roma Città Arpeta”, Garrone l’ha fatto con “Io Capitano”.

E non stupisce che alla proiezione al Festival di Venezia sia stato osannato, perché finalmente questo film dà uno scossone al cinema italiano, tenendoci incollati al seggiolino con una storia universale, una via crucis in lingua wolof che non lascia spazio a scroll sul cellulare. “Il 70% degli africani sono giovani e hanno il legittimo desiderio di migliorare la loro vita, essere liberi di circolare così come io da ragazzo volevo andare in America. È un fatto di giustizia: perché ai loro coetanei europei è permesso andare in Senegal in aereo e loro al contrario devono affrontare un viaggio della speranza senza sapere se arriveranno vivi? C’è un tema di libertà, di libertà di circolazione e di giustizia”, ha commentato il regista Matteo Garrone.

Ora una domanda sorge spontanea: può un film così forte sensibilizzarci, cambiare il nostro immaginario collettivo? Può un film spiegare ai governi più reazionari che questi migranti stanno affrontando in silenzio una moderna Shoah e che hanno bisogno di aiuto e non di porti chiusi? Può un film aprire gli occhi della comunità internazionale? Risposta facile non c’è. L’unica certezza dopo aver visto “Io Capitano” è che ad ogni vita persa nel Sahara, nei lager libici, ad ogni morto nel Mediterraneo, penseremo all’avventura di Seydu e Moussa. E non saranno più morti anonimi ma macigni sulla coscienza. Di tutti.

Maddalena Messeri

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