“Io sono come un poeta. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo”, in memoria di Anna Politkovskaja

Oggi 7 ottobre è il diciassettesimo anniversario dell’assassinio di Anna Politkovskaja, una delle prime giornaliste a denunciare la natura autocratica e la sistematica violazione dei diritti umani della Russia di Putin. Raccontò nel dettaglio la seconda guerra in Cecenia prima e i distorti meccanismi della Russia putiniana poi, incentrati nella persecuzione degli oppositori politici e nel mancato rispetto di diritti civili e Stato di diritto, che raccoglieva l’eredità di quella di Eltsin. Si fece conoscere al grande pubblico internazionale grazie agli articoli pubblicati sul periodico indipendente Novaja Gazeta e ad alcuni libri coraggiosi quanto fondamentali ancora oggi, su tutti i più celebri “La Russia di Putin” e “Diario russo”. Essi descrivono nascita e sviluppo del nuovo regime, accompagnati da una presa d’atto per il fallimento delle speranze democratiche dell’era post-sovietica.

Le responsabilità, nella ricerca dei mandanti dell’omicidio (nel 2014 furono condannati al carcere cinque uomini di etnia cecena, individuati come esecutori materiali), non sono mai state del tutto chiarite. Nel 2018 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha però condannato la Russia per violazione dell’articolo 2 della CEDU, non avendo istituito indagini adeguate relative al coinvolgimento dei servizi di sicurezza russi e ceceni. In seguito alla morte, Putin affermò brutalmente che il lascito della giornalista sulla vita politica russa era sopravvalutato e che dietro a questo crimine ci sarebbe potuto essere un disegno volto a screditare le autorità ufficiali e l’ordine costituito. Alla pari del nostro Antonio Russo, corrispondente di Radio Radicale che nel 2000 svelò le atrocità della guerra in Cecenia, Politkovskaja è stata una dei numerosi giornalisti uccisi per aver ricercato verità e giustizia all’ombra del Cremlino. Il suo più grande merito è stato quello di aver anticipato la tendenza degenerativa della Russia putiniana verso la democrazia illiberale, poi sfociata in una composita forma di autoritarismo effettivo, raccontando inoltre, in maniera allo stesso tempo sensibilmente discorsiva e puntualmente tecnica, il perverso rapporto con guerra e invasioni.

La giornalista scartò sin da subito la possibilità che l’ondata distruttiva del Cremlino in Cecenia potesse limitarsi ad una dimostrazione di forza isolata, inserendola piuttosto in un quadro espansivo più ampio, di tipo imperialistico, con il quale lo scacchiere internazionale avrebbe poi dovuto confrontarsi. L’unico politico europeo che partecipò, il 10 ottobre 2006, al funerale di Anna Politkovskaja fu Marco Pannella, che come lei comprese il forte rischio di una riproposizione dello scenario ceceno in altre forme e contesti: “ci ha raccontato, questa donna, questa giornalista, quello che non avete voluto sentire e non avete voluto vedere”, furono le parole che pronunciò al Parlamento europeo a Bruxelles l’indomani. Lo scorso anno, in questa stessa giornata di ricorrenza, Ales Bialiatski, attivista bielorusso tuttora in carcere, l’organizzazione non governativa russa per i diritti umani Memorial e l’associazione per i diritti umani ucraina Center for Civil Liberties ricevettero il Premio Nobel per la Pace. Ora è la figlia Vera, anche lei scrittrice e giornalista, a cercare di tenere sempre vivo il ricordo e il retaggio di mamma Anna, purtroppo troppo spesso dimenticata, proprio e soprattutto in Russia. La storia va avanti e prosegue battagliera, continuando a regalarci riferimenti culturali e modelli concreti che si impegnano attivamente nella promozione di libertà, democrazia, giustizia, difesa dei diritti e possibilità di criticare il potere. A tutti loro dovrebbe andare il nostro ringraziamento, e il nostro supporto.