La tregua sì, la pace no, sembra questo l’ingrediente fondamentale dell’accordo tra Israele e Hamas raggiunto a Doha e che per 42 giorni interromperà le ostilità nella Striscia e consentirà il rilascio di una parte degli ostaggi ancora nelle mani dell’organizzazione terroristica sunnita.
Si tratta di un passo importante alla vigilia dell’insediamento della nuova amministrazione statunitense (la Casa Bianca fa sapere di essersi coordinata con Trump) e dopo le parole del Presidente eletto che ha invitato Hamas a rilasciare gli ostaggi entro il 20 gennaio, data del suo insediamento, altrimenti “sarà l’inferno”. E alcuni, non pochi, hanno subodorato che Hamas avesse in serbo per Biden lo stesso commiato riservato nel 1981 dagli iraniani a Jimmy Carter, e in parte l’accelerazione nella trattativa conferma che Trump è più temuto di quanto Biden non lo sia mai stato. Da una parte la sua imprevedibilità che rende difficili i calcoli ai nemici, dall’altra il suo rapporto più che stretto con Benjamin Netanyahu, che di Trump è amico, rende più complessa la strategia a chi ha sperato per mesi di erodere i rapporti già tesi tra Bibi e Biden.

Perché Israele non si fermerà

Hamas per ora ha dato l’assenso all’accordo, ora si dovrà passare ai dettagli, ma sono tante le domande che affliggono il gruppo terroristico che governa Gaza dall’uscita di Israele nel 2005, e che affronta la fase più critica dalla sua nascita. Nel solo primo anno di guerra Israele ne ha decapitato i vertici, depotenziato le risorse e colpendo duramente gli alleati, Hezbollah e Iran, ha isolato i terroristi nella guerriglia casa per casa nei territori nuovamente occupati. Hamas è oggi molto più debole, ma non è ancora sconfitta, ed è per questo che oggi si parla di tregua, ma non certo di una fine del conflitto, perché ormai è chiaro che Israele non si fermerà fino a quando non avrà decapitato definitivamente l’organizzazione terroristica, assicurandosi maggiori garanzie per la propria sicurezza nazionale. Tel Aviv sa bene che non c’è più spazio per le vecchie politiche di contenimento e deterrenza. Quella strategia, comunque la si giudichi oggi con il senno di poi, è terminata il 7 ottobre del 2023.

Abu Mazen e il ‘dopo’ a Gaza

Se Israele vuol chiudere la partita, Hamas tenta di ricostruirsi e di riorganizzarsi a Gaza come in Cisgiordania, nella lotta interna alla realtà palestinese con l’Anp di Abu Mazen, che oggi spera di gestire il “dopo” – temutissimo da tutti – a Gaza, ripristinando un controllo sulla Striscia che Al Fatah perse con Hamas. Per parlare del dopo è ancora presto, e Hamas prova a riorganizzare la propria ala militare e lo fa con un nuovo Sinwar, Mohamed fratello dell’ex comandante dell’ala militare Yahya Sinwar ucciso dall’Idf lo scorso ottobre. Non si tratta di un comando effettivo attribuito a Mohamed Sinwar dalla leadership di Hamas in esilio in Qatar, ma di un comando de facto, che il cinquantenne miliziano esercita sui gruppi presenti nei territori di Gaza. Per molti è più estremista del fratello, l’uomo che ideò i pogrom del 7 ottobre.

Mohamed Sinwar detto “l’ombra”

Di Mohamed Sinwar detto “l’ombra” si sa poco, lui di anni nelle prigioni dello stato ebraico ne ha passati pochi, non 23 come suo fratello, e non è, fino ad oggi per lo meno, mai stato un volto noto, mediatico come lo fu Yahya Sinwar. Di sicuro è nota la sua partecipazione nel 2005 all’attacco che portò alla cattura del soldato israeliani Gilad Shalit, e che ebbe un ruolo nell’organizzazione dell’attacco del 7 ottobre. Adesso però “l’ombra” è sotto i riflettori, è al centro del mirino di Israele. Per Hamas la tregua può essere l’occasione di riorganizzare le forze, arruolare nuove leve per rinvigorire le 17mila unità che Israele ha eliminato, e le migliaia detenute, alcuni dei quali saranno oggetto della trattativa. Nei prossimi mesi Hamas si gioca il proprio futuro e la supremazia su Al Fatah che dopo anni di annichilimenti assapora per la prima volta da anni la distruzione dei rivali e dunque dell’unico ostacolo alla rappresentanza totale del popolo palestinese. Per Israele Al Fatah è l’interlocutore migliore e più politico, inoltre non dipende dall’Iran. Ma le radici dell’odio sono dure da essere estirpate e la guerra ha facilitato la propaganda terroristica di Hamas, e la sua presa sulla popolazione civile.
Si entra nella tregua forse, ma non si esce di certo dalla guerra.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.