Le parole del ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen sono apparse rivelatrici. Per il capo della diplomazia dello Stato ebraico, il governo ha circa due o tre settimane di “legittimazione internazionale”. Poi, ha confessato il ministro, la pressione internazionale potrebbe diventare significativa, visto che già ora “sta diventando sempre più forte”. Cohen ha infatti ammesso che nei colloqui privati con i suoi omologhi di altri Paesi, la situazione sembra farsi complicata con il passare dei giorni, perché si riduce l’immedesimazione dopo il 7 ottobre e perché si punta sempre di più sulla questione degli aiuti. Non mancano a suo dire anche richieste, seppure non formali, di un cessate il fuoco.
E secondo il capo della diplomazia israeliana, l’unico freno che evita che questa pressione diventi eccessiva è quello degli ostaggi: uno dei più grandi nodi dell’operazione militare lanciata dopo la barbarie del 7 ottobre. Una barbarie che, come ha spiegato un’inchiesta del Washington Post, quasi certamente non doveva limitare l’orrore al sud di Israele, ma che secondo i funzionari dell’intelligence aveva anche lo scopo di raggiungere i confini della Cisgiordania, scatenare una guerra regionale, e colpire in modo duro non solo Israele, ma anche la stessa Autorità nazionale palestinese, che si sarebbe ritrovata con le spalle al muro di fronte all’azione della sigla jihadista. Cohen in serata ha provato a smorzare i toni polemici, evidenziando che “non esiste nessun conto alla rovescia” della diplomazia verso il governo. Tuttavia, non sembra difficile ipotizzare che il pressing sia forte su tutto l’esecutivo. Così come appare chiaro che il tema degli ostaggi resti fondamentale, dal momento che le persone rapite – e che probabilmente sono nascoste nella rete di tunnel sotto Gaza – sono prioritarie per Israele e per la comunità internazionale.
Lo ha fatto capire anche la diplomazia statunitense, che sia per bocca del presidente Joe Biden che attraverso le parole del segretario di Stato Anthony Blinken ha smentito qualsiasi tipo di cessate il fuoco. La linea Usa è quella di richiedere tregue umanitarie, brevi interruzioni nei combattimenti per permettere l’arrivo degli aiuti (indispensabile, a detta delle autorità sanitarie di Gaza, il carburante per gli ospedali) e fare in modo che la liberazione degli ostaggi possa essere assicurata al pari della fuga dei civili. Ma da Washington sono consapevoli che Israele non possa fermarsi di fronte a centinaia di cittadini ancora nelle mani delle fazioni islamiste e soprattutto con l’alta dirigenza di Hamas e la maggioranza dei suoi miliziani ancora asserragliati nell’exclave palestinese. Su questo dossier stanno lavorando molti attori. Gli Stati Uniti sono in prima fila, e lo hanno dimostrato con i droni inviati per individuare gli ostaggi e con i viaggi dei maggiori inviati dell’amministrazione Biden. Da ultimo quello del direttore della Cia, William Burns, impegnato in incontri di alto livello tra Egitto e Qatar. Doha è il centro di molte triangolazioni. E non è un caso che a bussare alle porte dell’emirato sia stato anche il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan.
A tentare il dialogo con Hamas per gli ostaggi è anche la Croce Rossa. Il continuo tentativo di dialogo dell’organizzazione umanitaria lo ha spiegato Christian Cardon in un’intervista al quotidiano Le Temps, dove ha chiarito che in questo momento si insiste soprattutto sulla possibilità di avere “accesso agli ostaggi”, fornire loro le cure necessarie e permettere di comunicare con le famiglie. Dopo le aperture del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che aveva ammesso il possibile raggiungimento di un accordo, ieri, un funzionario di Hamas in Libano ha gelato le speranze ribadendo che la condizione rimane quella della liberazione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Tuttavia, l’impressione è che le trattative siano senza sosta. Nel frattempo, non si ferma la guerra nella Striscia. Ieri Netanyahu, sempre più sotto pressione sia dall’esterno che dall’interno, ha parlato ai soldati sottolineando che questa guerra andrà avanti “fino in fondo” e che, se non saranno eliminati i terroristi, “Hamas tornerà”. Il messaggio è chiaro e significa che per il governo di emergenza non può esserci pace senza una soluzione definitiva alla presenza di Hamas nella Striscia.
Le forze israeliane continuano intanto a combattere a Gaza city, dove il ministro della Difesa Yoav Gallant ha affermato che Hamas non ha più alcuna capacità di controllo mentre è iniziata a circolare una foto della Brigata Golani dentro il parlamento della città. Gli ospedali rimangono l’epicentro dello scontro: tragico segnale della presenza di miliziani nelle strutture sanitarie e uso dei civili come scudi umani. Per i comandi delle Tsahal un fattore di importanza fondamentale, specialmente sul fronte politico. E non è un caso che il quotidiano Haaretz lo abbia descritto come un vero e proprio dilemma morale di Israele. Uno Stato ebraico che guarda con preoccupazione, di nuovo, anche al fronte nord. Ieri, Netanyahu ha di nuovo avvertito Hezbollah, la milizia sciita libanese, di “non scherzare col fuoco”. Ma l’uccisione di un civile israeliano ad opera di un missile del Partito di Dio ha mostrato la pericolosità di quel fronte, dove continua la guerra a bassa intensità tra Idf, milizia sciita e ramificazioni di Hamas. Torna a incendiarsi anche la Siria. Secondo fonti del Pentagono, le basi Usa e internazionali nel nord-est del Paese sono state attaccate quattro volte in 24 ore, con la matrice che è sempre quella delle milizie legate all’Iran.