Prima tappa Riyad. Il Segretario di Stato americano Antony Blinken è sceso dalla scaletta dell’aereo porgendo la mano al ministro degli esteri, Mohammed Al-Ghamdi, per la sua missione più delicata: chiudere la guerra di Gaza con la liberazione degli ostaggi e far accettare a Israele lo Stato palestinese. È arrivato mentre un’ondata di aerei da bombardamento americani colpiva le milizie filoiraniane. Tutto è pronto per questo round cui partecipano oltre l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Qatar, Israele e il West Bank. Ha subito spiegato che gli attuali attacchi arei non allargheranno il fronte di guerra né tantomeno provocheranno l’Iran.

I russi hanno chiesto l’immediata convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dove denunciare – ha detto Maria Zakharova per conto di Lavrov – “la natura aggressiva della politica americana”. Tutto secondo copione. Ieri sera si aspettava la risposta ufficiale di Hamas: ci sta o non ci sta a comprare una tregua pagandola in ostaggi? “La palla è in campo loro”, dicono gli americani. Ma Hamas ancora non aveva deciso e aveva affidato a una radio del gruppo il compito di avvertire che Hamas stava ancora valutando la proposta di tregua e rilascio portata dagli americani che l’hanno imposta a Netanyahu minacciandolo di non consegnargli più le armi di cui ha immediato bisogno. Biden si è prima di tutto assicurato che a Teheran non prevalesse il partito della guerra totale. Per questo gli Stati Uniti hanno avvertito che seguiteranno a colpire durissimamente insieme agli inglesi tutti i “proxy” filoiraniani a cominciare dagli Houthi nel sud dello Yemen, i quali hanno paralizzato la navigazione commerciale diretta a Suez.

Netanyahu ha accettato la proposta dell’immediato Stato palestinese che è sempre stato rifiutato dai palestinesi fin dal 1948 e poi dopo gli accordi di Oslo quando i palestinesi – sotto la guida di Yasser Arafat – accettarono il 1° luglio 1994 dal Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin le chiavi amministrative di Gaza City: quel giorno prometteva l’alba di un nuovo futuro ma portò frustrazione e fallimenti per la sanguinosa faida fra l’Autorità nazionale palestinese e Hamas. Netanyahu ha litigato ad alta voce con Biden, il quale teme per le imminenti elezioni del 4 novembre che potrebbero incoronare Donald Trump, nemico dell’Europa, amico di Vladimir Putin, legato alla destra di Netanyahu, il quale a sua volta deve fare i conti con l’opinione pubblica israeliana. Centro e sinistra lo vorrebbero far cadere ma si è visto che non esistono strumenti per estrometterlo, ma i partiti che hanno fatto quadrato con Netanyahu hanno avvertito che con la pace finirà anche il governo. Gli israeliani non dimenticano il 7 ottobre del 2023. Non soltanto per la mostruosa carneficina ma per le responsabilità militari di Bibi Netanyahu, il quale trema perché sa che non appena terminato il suo mandato dovrà rispondere in diversi processi di corruzione e questa sua vulnerabilità rappresenta un punto di forza per il presidente Joe Biden, che vuole fargli ingoiare due rospi indigesti: la tregua, forse una pace con Hamas e lo Stato palestinese, progetto impopolarissimo in Israele.

Per altri due anni, fino all’ottobre 2026, in Israele non sono previste elezioni e un analista di sinistra come Anshel Pfeffer, citato dal New York Times, ha detto sconsolato: “Tutti vorremmo liberarcene ma nessuno può costringerlo a dimettersi”. Blinken ha il compito di dare un taglio a tutti questi grovigli e imporre un discorso realista: se Israele vuole ancora il sostegno americano deve chiudere la guerra e accettare lo Stato palestinese. Netanyahu si sente forte in casa dove dispone di maggioranza nella Knesset di 64 voti su 120 membri, ma basterebbe sfilargli cinque deputati per farlo cadere entro tre mesi. Ma il suo Likud è in ascesa dopo aver guadagnato 32 seggi nel 2022, strappati a tutti gli altri partiti maggiori cui si sono aggiunti due partitini, quello di Bezalel Smotrich e l’atro di Itamar Ben-Gvir che con i loro 13 seggi garantiscono la stabilità oltre che la maggioranza.

E oggi proprio questi due piccoli partiti indispensabili per Netanyahu vedono come il fumo negli occhi la proposta americana di uno Stato palestinese perché hanno promesso ai loro elettori di tornare a fabbricare insediamenti a Gaza quando sarà finita la guerra. Netanyahu ha bisogno urgente di recuperare gli elettori di centro e un po’ di quelli di sinistra portando loro in dono la liberazione degli ostaggi ancora vivi. Ma mentre la destra religiosa se ne infischia della sorte degli ostaggi che sono generalmente atei dal comportamento promiscuo, il “partito degli ostaggi” cresce come movimento politico trasversale e Hamas sta ora giocando una partita non solo militare ma anche interna nella politica israeliana. Ieri si diceva che i dirigenti di Hamas stessero ancora discutendo se accettare o no la proposta di una lunga tregua e persino di una pace, ma l’argomento più importante per loro è quello degli ostaggi: liberarli tutti significherebbe non avere più uno strumento con cui ricattare il governo israeliano. Americani e israeliani vogliono concedere una tregua ma soltanto se Hamas restituisce tutti gli ostaggi. Biden sta compiendo una vera operazione di guerra contro le basi degli Houthi e di tutti i gruppi dei proxy filoiraniani in Iraq, Siria, Libano e nello Yemen del Sud dove ogni giorno i più potenti cacciabombardieri americani e britannici distruggono basi e rampe di lancio.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.