Gli Houthi non fanno marcia indietro. E lo hanno confermato anche ieri, nelle stesse ore in cui l’Italia approvava la sua partecipazione alla missione Aspides. I miliziani filoiraniani, nelle prime ore di martedì, hanno preso di mira la nave portacontainer Sky 2 della Msc, nave di proprietà svizzera battente bandiera liberiana, danneggiandola (non in modo grave) con un missile. Poi, il ministro della Difesa dei ribelli yemeniti ha inviato un messaggio chiaro tanto nei confronti di Londra quanto di Washington: “Abbiamo ancora molte carte a cui non abbiamo fatto ricorso. La prossima fase sarà più dolorosa e supererà ogni aspettativa”. Dopo queste frasi, lo stesso Muhammad Nasser Al-Atifi ha ribadito che sarà attaccata qualsiasi imbarcazione “sionista, americana o britannica che cerchi di violare il divieto che abbiamo imposto sul loro movimento nel Mar Rosso e nel Mar Arabo” e finché non saranno cessate le “loro brutalità”.

Poco prima, a lanciare un altro avvertimento era stato invece il ministro delle Comunicazioni e dell’Informatica, che all’emittente locale Al Masirah, legata alla milizia sciita, aveva detto che “per garantire le loro sicurezza, le navi posacavi marittimi devono ottenere un permesso dal Dipartimento degli affari marittimi a Sanaa prima di entrare nelle acque territoriali yemenite”. Un messaggio che è arrivato dopo che la Hgc International Communications Company aveva confermato il danneggiamento di quattro cavi sottomarini per le telecomunicazioni nel Mar Rosso. Danneggiamento che il gruppo ribelle dello Yemen aveva smentito per poi dire che ogni incidente era da addebitare alle forze occidentali presenti nell’area. I segnali dallo Yemen sono dunque chiari. Così come chiare sono le parole dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, Hans Grundberg, che ha ammesso che la situazione internazionale e l’escalation della milizia ribelle complica gli sforzi per una mediazione che ponga fine all’enorme crisi che da anni colpisce lo Yemen. “È necessario stabilire un cessate il fuoco affinché gli yemeniti possano vivere con la garanzia che la guerra non tornerà”, ha detto Grundberg, invocando un “processo politico”.

Tutto però fa parte di un complesso meccanismo geopolitico che ha coinvolto (e sconvolto) l’intero Medio Oriente. E in questo sisma strategico dai contorni ancora poco chiari e dalle conseguenze che tuttora devono essere scoperte, l’epicentro rimane la Striscia di Gaza. I negoziati in corso tra Israele e Hamas appaiono cristallizzati, anche se dagli Stati Uniti non diminuisce il pressing affinché le trattative non si fermino del tutto, sprofondando in una palude che mette a rischio la vita degli ostaggi nelle mani di Hamas e quella della popolazione palestinese, ormai stremata. Osama Hamdam, tra gli uomini di spicco di Hamas, ha detto – come riportato dalla Cnn – che la sua organizzazione ha risposto alle richieste sull’accordo, ribadendo le condizioni poste da sempre per la tregua e la liberazione dei rapiti: ritiro delle truppe israeliane, aiuti umanitari e ritorno degli sfollati nelle proprie case. Per Bassem Naim, uno dei vertici di Hamas che ha parlato alla Nbc, “è nelle mani degli americani il compito di esercitare una pressione sufficiente sugli israeliani” per raggiungere un accordo sulla tregua prima dell’inizio del mese di Ramadan. Mentre da Washington, le affermazioni dell’amministrazione Usa dicono sostanzialmente l’opposto. Il presidente Joe Biden, in alcune brevi battute prima di prendere l’aereo, ha confermato ai giornalisti la sua linea nei riguardi della questione umanitaria. “Dobbiamo far arrivare più aiuti a Gaza, non ci sono scuse”, ha affermato il capo della Casa Bianca mentre si studiano i piani per nuovi lanci di aiuti dal cielo o per lo sbarco via mare.

Ma Biden ha anche detto che la decisione sulla tregua e la liberazione degli ostaggi è “nelle mani di Hamas”. E segretario di Stato Antony Blinken ha esortato il gruppo islamista ad accettare un “cessate il fuoco immediato” con Israele. “Abbiamo l’occasione di giungere a un cessate il fuoco immediato che potrebbe riportare a casa gli ostaggi, permettere un aumento notevole degli aiuti umanitari per i palestinesi che ne hanno così disperatamente bisogno e che potrebbe in seguito creare ugualmente le condizioni per una soluzione durevole” della guerra, ha detto Blinken incontrando il primo ministro del Qatar, Mohammed ben Abdelrahmane Al-Thani. E l’impressione è che gli Stati Uniti non vogliamo fermare il loro impegno anche quando al Cairo, sede dei negoziati, si respira un’aria pesante, in bilico tra il gelo delle dichiarazioni e alcuni piccoli spiragli di luce rivelati dalle fonti vicine ai colloqui. Dall’Egitto, i funzionari continuano a predicare calma e a ricordare che le trattative non sono ferme né fallite. E la speranza di molti è che alla fine entrambe le parti cedano rispetto a un’intesa che per gli Usa e per l’intelligence israeliana deve arrivare prima del Ramadan. “Potrebbe essere molto, molto pericoloso”, ha confessato lo stesso Biden.

E questo perché il rischio di una escalation appare sempre più concreto, sia sul fronte interno (in particolare Gerusalemme e Cisgiordania, come ha avvertito anche Gallant in un documento interno ottenuto dal giornale Yedioth Ahronoth), sia sul fronte esterno, e cioè nella Striscia e in Libano. Ieri, incontrando l’inviato speciale Usa Amos Hochstein, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha accusato Hezbollah di avvicinare sempre di più il conflitto aperto tra la milizia e le forze armate dello Stato ebraico. E a confermare il rischio di escalation sono stati anche i nuovi attacchi delle Israel defense forces contro alcune postazioni nel Libano meridionale e le sirene d’allarme che hanno risuonato nel nord di Israele per l’arrivo di razzi dal Paese dei cedri. La tensione è salita anche sul fronte siriano, dove ieri è stato intercettato un velivolo sospetto (quasi sicuramente un drone) entrato nel Golan israeliano e proveniente da oltreconfine.