L’Iran ha giurato vendetta. Ma sulla Repubblica islamica, esperti e fonti diplomatiche e di intelligence concordano su un fatto: i vertici del paese non vogliono una guerra regionale. Uno scenario possibile, specialmente con un attacco coordinato contro Israele da parte di Teheran e di tutto il cosiddetto Asse della resistenza islamica (la galassia di milizie eterodirette dagli ayatollah in Medio Oriente). Tuttavia, molti in Iran, nel circolo dei consiglieri della Guida suprema Ali Khamenei così come lo stesso presidente Masoud Pezeshkian, sono consapevoli del grande rischio che correrebbero in caso di guerra. Un pericolo che non riguarda solo lo scontro a livello militare con lo Stato ebraico, ma anche il possibile e ulteriore isolamento del paese rispetto all’Occidente, e in particolare agli Stati Uniti.

Le ultime elezioni, con la vittoria del riformista Pezeshkian, hanno fatto capire che l’opinione pubblica è sempre più frustrata da un’economia soffocata dalle sanzioni. E il presidente ha vinto anche grazie alla promessa di un nuovo corso nei rapporti con Washington, soprattutto per quanto riguarda l’accordo sul programma nucleare. Per l’Iran si tratta di un bivio decisivo, ed è anche per questo che gli Stati Uniti hanno attivato la loro diplomazia segreta per cercare di convincere Teheran a fare un passo indietro. Negli ultimi giorni, una delegazione americana è sbarcata in Iran per suggerire alle controparti della Repubblica islamica un compromesso in grado di evitare la guerra. Un’escalation che Joe Biden non vuole in alcun modo, tanto più ora che la sua delfina Kamala Harris è in corsa per la Casa Bianca contro un Donald Trump ipercritico sulla politica estera democratica.

I tre messaggi degli Stati Uniti

Gli Usa, mentre hanno lanciato allarmi sull’attacco imminente della Repubblica islamica, hanno recapitato a Teheran tre messaggi. Il primo, assicurare che non vi è stato alcun loro coinvolgimento nell’omicidio di Ismail Haniyeh. Il secondo, che qualsiasi attacco contro le basi americane nella regione avrebbe ricevuto una pronta risposta. Il terzo, evitare l’escalation anche attraverso una serie di offerte. Insieme a Washington, si è attivata tutta la sua rete di alleati regionali. Due giorni fa, il ministro degli Esteri giordano è sbarcato nella capitale iraniana per un’insolita visita. Si è mosso anche l’Oman, tradizionale ponte tra il mondo persiano e quello arabo. Ma se gli ayatollah e il presidente hanno ascoltato con molta attenzione quanto detto dagli statunitensi, allo stesso tempo non sono sordi agli input arrivati da altri parti.

Ecco la Russia

Nel grande gioco della crisi, infatti, è entrata anche la Russia, che ieri ha mandato proprio nella capitale iraniana l’ex ministro della Difesa, Sergei Shoigu. Per il segretario del consiglio di sicurezza russo, è stata una giornata di incontri di altissimo livello. E lo sbarco del fedelissimo di Vladimir Putin prova che il Cremlino guarda con attenzione a quanto avviene in Medio Oriente. Sia per capire come ottenere il maggior profitto dal caos (qualche analista ha segnalato anche il supporto bellico russo sia all’Iran che agli Houthi in Yemen), sia per tutelare i suoi interessi. Una scacchiera complicata in cui ora anche Israele deve decidere cosa fare. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha pubblicamente dichiarato di non temere un’escalation. “Risponderemo e faremo pagare ai nostri nemici un prezzo elevato per qualsiasi atto di aggressione contro di noi, non importa da dove provenga” ha detto il premier. “I nostri nemici stanno valutando attentamente i loro passi grazie alle capacità che avete dimostrato nell’ultimo anno. Tuttavia, dobbiamo prepararci a tutte le possibilità, compresa una rapida transizione all’attacco” ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant.

Un gioco pericoloso

Ma lo Stato ebraico sa anche che uno scenario di conflitto su vasta scala con l’attivazione di più fronti è un gioco che può diventare molto pericoloso. Già solo con l’ipotesi di aprire un secondo fronte dopo Gaza, quello del nord con gli Hezbollah in Libano, molti esperti e uomini delle Israel defense forces avevano segnalato delle criticità. Il Wall Street Journal ha riferito inoltre della stanchezza che sta corrodendo i riservisti impegnati nella guerra contro Hamas nella Striscia. Donne e uomini che rappresentano uno dei pilastri della difesa di Israele, ma che dopo dieci mesi di guerra iniziano ad accusare frustrazione. Mentre il paese necessita di nuovo di quella forza lavoro che ora è in uniforme sui vari fronti interni ed esterni.