Israele non sa quando finirà davvero la guerra nella Striscia di Gaza. Hamas non è ancora sconfitta. E dopo nove mesi di guerra la sorte degli ostaggi rapiti il 7 ottobre resta ancora un punto interrogativo. Una ferita aperta nel cuore dello Stato ebraico ma soprattutto una spada di Damocle per Benjamin Netanyahu, pressato da una piazza che chiede a gran voce la fine di un incubo. Per i rapiti, per i parenti, ma anche per il paese. Le trattative con Hamas appaiono congelate. Il raid israeliano che ha messo nel mirino uno dei principali comandanti nella Striscia di Gaza, Mohammed Deif ha scatenato l’ira di Hamas e la preoccupazione dei mediatori internazionali (Stati Uniti, Qatar ed Egitto). Ma, al netto delle minacce pubbliche, l’impressione è che il negoziato sulla tregua e la liberazione degli ostaggi prosegua sottotraccia. Ora bisognerà capire fin dove potrà arrivare mentre continua l’operazione militare.
La frustrazione dell’elettorato
Una guerra logorante, difficile, e che ha scatenato la frustrazione di buona parte dell’elettorato dello Stato ebraico, preoccupato dall’assenza di una exit strategy. E questo timore coinvolge anche una parte degli apparati della Difesa e degli analisti. Specialmente quando considerano anche l’altro fronte, quello con Hezbollah. Il portavoce in lingua araba delle Forze di difesa israeliane, Avichay Adraee, di recente ha detto che il Comando Nord “continua a prepararsi per il combattimento in Libano addestrando le forze di riserva”. Le brigate dei riservisti sono in allerta e si addestrano per difendere i villaggi di confine e addentrarsi in zone di montagne e terreni accidentati (in sostanza, lo scenario di un conflitto nel Libano meridionale).
Nel frattempo proseguono i bombardamenti con droni e caccia da parte di Israele e le raffiche di razzi lanciati dalla milizia sciita. Una guerra a bassa intensità che rischia di sfociare in un conflitto aperto se non si trova una rapida soluzione. Ma su questo scenario di scontro gli esperti e i funzionari della Difesa israeliana sono cauti. Lo ha spiegato di recente un articolo del Washington Post, in cui è stato sottolineato che in questo momento una guerra contro Hezbollah sarebbe molto difficile da gestire per Israele. L’operazione nella Striscia di Gaza è in una fase ancora troppo calda per permettere uno spostamento delle truppe.
L’incursione terrestre
Ma quello che preoccupa i tecnici è che un’eventuale incursione terrestre in Libano da parte di Israele potrebbe rivelarsi una trappola. Hezbollah è molto più addestrato ed equipaggiato di Hamas. E i suoi miliziani hanno combattuto in Siria per anni, guadagnandosi un’enorme esperienza sul campo di battaglia. Inoltre l’arsenale del Partito di Dio è ben più potente di quello delle fazioni palestinesi, come è stato dimostrato anche dagli attacchi compiuti contro le basi nel nord di Israele. E i voli dei droni da ricognizione hanno messo in luce le capacità tecnologiche della milizia filoiraniana del Libano. A questo si aggiungerebbe poi il dato politico: dopo la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, un conflitto nel paese dei cedri (da tempo in un abisso economico) causerebbe altra devastazione. E la pressione della comunità internazionale su Netanyahu, già molto alta per quanto accade nell’exclave palestinese, diventerebbe probabilmente insostenibile.
Il tiepido approccio
E questo nonostante anche l’opposizione, in particolare Benny Gantz, prema per una soluzione della crisi: anche con l’uso della forza. Come si possa sbloccare l’impasse resta però un grosso punto interrogativo. Da ottobre il Nord di Israele e il Sud del Libano sono paralizzati, tra città e villaggi abbandonati, imprese ferme e sfollati interni. Ma Joe Biden e i leader occidentali sono stati chiari: una guerra aperta potrebbe causare un incendio devastante in grado di allargarsi a tutta la regione, a partire dalla Siria. E con un Iran (dominus di Hezbollah) che sembra volere tentare un tiepido approccio diplomatico con l’Occidente, una guerra sarebbe ben poco desiderabile da parte di Washington.