A condannare in maniera ferma o a mandare messaggi di solidarietà non è seconda a nessuno, quando però si tratta di agire o reagire velocemente in modo efficace, vacilla, tentenna, discute, ritarda. È quello che in maniera costante succede all’Unione Europea nel momento in cui deve affrontare rilevanti crisi esterne, attimo in cui le istituzioni di Bruxelles mettono a nudo all’improvviso e di fronte al mondo tutte le proprie debolezze. La condotta tenuta nei giorni successivi all’attacco di Hamas a Israele ne è stata la conferma, con i vari leader europei che, sì, hanno denunciato le barbarie perpetrate dal gruppo terroristico ma poi si sono contraddette soprattutto sulla questione degli aiuti umanitari verso i palestinesi, tra stop, revisioni e dietrofront. Al netto della bontà della scelta finale, la fragilità dell’Ue si è dimostrata proprio per non aver saputo parlare in maniera univoca sul tema, dando spazio a interpretazioni e ripensamenti interni fuori luogo in un momento simile.

Oltre alla questione aiuti, a palesarsi è stato in particolare il divario tra la postura della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, con il suo ferreo “l’Europa è al fianco di Israele”, e quella dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri Josep Borrell che più o meno diplomaticamente ha ribadito la differenza tra Hamas e l’intera popolazione palestinese, ha condannato in generale tutti gli attacchi sui civili e in particolar modo l’assedio di Gaza, giudicato una violazione del diritto internazionale. È ormai risaputo che i leader Ue si pestino i piedi a vicenda, in alcuni casi anche in maniera grottesca, come per esempio il taglio dalla foto ufficiale diffusa da von der Leyen della commemorazione a Bruxelles per Israele, in cui il presidente del Consiglio europeo Charles Michel è stato casualmente escluso.

Tuttavia il fatto che questa dinamica – nonostante il passare del tempo – non cambi continua a minare la credibilità e l’autorevolezza dell’Unione Europea. Un problema non da poco per chi ambisce a diventare una superpotenza mondiale, ma nella pratica si ritrova ad essere un’attrice sempre più irrilevante davanti ai conflitti e agli stravolgimenti geopolitici. Un’Ue lasciata a guardare, costretta a rincorrere gli altri attori che si muovono e la superano, nel caso di Israele anche solo con gesti simbolici. Come quello del ministro degli Esteri britannico James Cleverly, il primo ad arrivare a Tel Aviv, seguito ieri anche dal segretario di Stato americano Antony Blinken e addirittura dalla proposta di visita avanzata dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky al governo israeliano. Il discutibile tempismo di Borrell, invece, lo ha fatto volare in Cina per parlare delle connessioni economiche tra Pechino e il Vecchio Continente. D’altronde in Israele non poteva andare, le sue posizioni sulla questione palestinese sono note, tanto che solamente lo scorso marzo è stato segnalato dalle autorità israeliane come “persona non grata” nel Paese. Non un biglietto da visita entusiasmante per chi dovrà affrontare a nome dell’Europa un dossier così caldo nei prossimi tempi.

La credibilità è una qualità che si acquisisce con il tempo e basta poco per perderla, anche nelle relazioni internazionali. Per l’Ue non c’è bisogno di risalire tanto indietro nel tempo per ricordare alcune malsane prove che ne hanno compromesso l’attendibilità, dall’iniziale gestione della pandemia di Covid-19 alle ostruzioni interne tra paesi membri riguardo la guerra in Ucraina, migliorate solo con il passare delle settimane e dei mesi dopo un primo approccio disastroso. Una credibilità venuta meno anche sul NagornoKarabakh, dossier su cui in teoria Michel si era speso molto alla ricerca di una soluzione delle tensioni tra Armenia e Azerbaigian, ma che in pratica si è concluso con un fallimento diplomatico su cui ora l’Ue può rimanere solo a guardare.

La speranza è che, di fronte alla possibile apertura di altri scenari complessi, l’Unione Europea e i suoi leader possano imparare dalle lezioni del passato, perché se forse è troppo ambizioso pensare che Bruxelles possa avere voce in capitolo sul caso Taiwan è invece sacrosanto augurarsi che abbia un ruolo decisivo davanti ai crescenti subbugli nei Balcani. La speranza è l’ultima a morire, dopo ci saranno solo i rimpianti.