Sono indiscutibilmente impressionanti le manifestazioni che nei giorni scorsi hanno riempito le strade di diverse città israeliane. Se non si può dire che rappresentano una sollevazione generalizzata, nemmeno è possibile liquidarle al rango di disparate e insignificanti proteste.
Ma comprenderne appieno la fisionomia e immaginarne con qualche attendibilità le conseguenze significa innanzitutto riconoscere che non sono omogenee le motivazioni che le hanno prodotte e le istanze che ne contrassegnano il valore sociale e politico.
Una lettura disinformata e provinciale ha preteso di rappresentarle come una generalizzata rassegna di bandiere anti-governative, ma la realtà è che a portare tutta quella gente in piazza – come si direbbe in un vernacolo sindacal-romanesco assai poco adatto a quella scena così diversa – sono lamentele e rivendicazioni che pescano in ambiti ben diversi di militanza e partecipazione civile. In parte si tratta certamente di un’avversione rivolta a Benjamin Netanyahu, la quale tuttavia va spiegata alla luce di considerazioni un po’ più aderenti alla situazione rispetto a quelle che campeggiano in certi lanci di agenzia impressionistici e nelle analisi di qualche sussiegoso sprovveduto.

La realtà è infatti che la quota notevole dell’opinione pubblica ed elettorale che, da sempre, aveva in antipatia il primo ministro, dopo il 7 ottobre considerava di affidarsi a un equilibrio e alla protezione di un assetto di unità nazionale che meritava sostegno “nonostante” la presenza di quel capo detestato o, almeno, non gradito. A sei mesi di distanza, l’orientamento di quel giudizio denuncia un sentimento diverso e mira a soluzioni correttive: unità nazionale, certamente, ma “senza più” Netanyahu, un sentimento tanto più aspro e una pretesa di cambiamento tanto più urgente nel dilungarsi ormai semestrale di una guerra che non soddisfa la richiesta di risultati sull’argomento più atrocemente simbolico, vale a dire la vita degli ostaggi. I manifestanti di oggi avevano dovuto abbassare gli occhi e tenersi il groppo quando, dai vertici istituzionali e dei servizi di sicurezza, era venuto chiarissimo il messaggio che si sarebbe fatto tutto il possibile per liberare gli ostaggi, ma con l’avvertenza che nulla, nemmeno la loro vita a rischio, avrebbe impedito l’esercizio della forza necessaria per neutralizzare le capacità offensive degli esecutori e dei mandanti degli eccidi del Sabato Nero. Ma sei mesi di quella prigionia, nell’angoscia spaventosa per il trattamento che quelle persone stanno subendo, rappresentano uno stillicidio insopportabile per chi, comprensibilmente, riesce ormai solo a gridare “Bring them home now” (riportateli a casa ora) senza più domandarsi come questo possa avvenire senza cedere indiscriminatamente al proposito ricattatorio e, soprattutto, al pericolo di riorganizzazione dei rapitori.

C’è ovviamente anche altro. La parte laica e maggioritaria della società israeliana, distante culturalmente e per ambizioni di vita dalle falangi che insistono sull’addentellato biblico per spiegare le ragioni del proprio insediamento, non resta impassibile né tanto meno a rimuginare sensi di tradimento davanti al complicarsi dei rapporti con l’interlocutore/alleato statunitense, una tensione che non riguarda esclusivamente l’approvvigionamento militare ma, altrettanto se non in maggior misura, il circuito degli investimenti in tecnologia che hanno fatto l’ossatura immateriale dell’economia israeliana degli ultimi anni. Il risentimento per una risoluzione dell’Onu lasciata correre grazie al “passo indietro” degli Stati Uniti denunciato con rabbia da Netanyahu è stato condiviso da molti che pure, appunto, davvero non mostrano atteggiamenti di giustificazione assolutoria delle responsabilità del capo del governo: ma quella deliberazione internazionale, per quanto vissuta diffusamente come l’ennesima ingiustizia, non basta a rendere popolari i vagheggiamenti autarchici delle componenti fondamentaliste che, non a caso, pescano voti tra i sussidiati e presso la parte meno avanzata della società israeliana, non certo nel bacino propulsivo delle professioni, del commercio e dell’impresa che non vede futuro in una prospettiva asserragliata.
Insinuato in quelle manifestazioni c’è poi certamente il dispetto per l’intransigenza, centrogravitata sui suoi bisogni personali più che sulle esigenze di gestione della crisi, di cui Netanyahu ha dato prova ben prima del 7 ottobre: ma le cui conseguenze, in modo plateale, proprio quel giorno sono esplose in faccia a un Paese già abbastanza infastidito. L’autosufficienza criminale di Hamas, infatti, il grado di inopinata violenza di cui si rendevano responsabili tre o quattro mila miliziani che infierivano in quel modo sulla popolazione, non erano sufficienti – anzi – ad assolvere politiche di impegno militare concentrate altrove, a protezione dei coloni, ancora una volta a pegno dell’alleanza che aveva portato al governo gli oltranzisti che si pongono a difesa del Paese con l’allestimento di chioschi per la distribuzione di fucili mitragliatori. Una scena solo apparentemente di dettaglio e in realtà tragicamente rappresentativa, perché preconizza la trasformazione dell’immagine di un popolo in armi, quando occorre, in quella di un popolo permanentemente guerrigliero.

Ancora, hanno influenza in quelle manifestazioni questioni sinora irrisolte, ma ora attizzate da decisioni giudiziarie, circa i finanziamenti alle scuole frequentate dagli ultra-ortodossi esentati dal servizio militare. Una questione che ovviamente va oltre il puro fatto della decurtazione dei fondi; e prospetta la guerra di Gaza quale “punto di svolta dell’integrazione degli ultra-ortodossi nella società israeliana” (così, testualmente, titolava Haaretz l’altro giorno). In quelle manifestazioni ha sfogo anche quest’altro motivo di insoddisfazione, cioè il risentimento verso un premier che, rispetto a quei privilegi economici e di esenzione, ha mostrato di tenere molto al consenso dei partiti che ne pretendono il mantenimento e molto poco a quello della maggioranza che ne reclama l’abolizione. E quando, già nel pomeriggio del 7 ottobre, proprio in Israele si diceva che Israele non sarebbe stato più lo stesso, tra i retro-pensieri che formulavano un simile giudizio c’era anche quello rivolto a un assetto sociale in cui stava archeologicamente impiantato un elemento di separatezza e arretratezza, appunto quello degli ultra-ortodossi, sempre meno compatibile: una realtà, cioè, semmai gestibile da una classe dirigente che – com’è stato nei decenni – ha saputo contenerne le pretese e le influenze, ma non più – com’è da qualche tempo – da governanti che piuttosto vi ricercano accreditamento vellicandone le ambizioni di rappresentanza.
Oggi, c’è da esserne certi, troveremo titoli su Israele che si rivolta contro il governo “di destra” e chiede la “pace”, secondo un criterio di lettura tanto sprovveduto quanto mal orientato. Per una volta, vale la pena di dire che la situazione è molto più complessa e meriterebbe un accenno di intelligenza e conoscenza supplementare.
Una cosa è certa: innanzitutto nella percezione degli israeliani che lo richiedono, un avvicendamento al governo segnerebbe uno sviluppo, non certo una revoca delle ragioni che hanno portato alla reazione di difesa intrapresa sei mesi fa.