È vero che Israele vuole passare il confine settentrionale ed entrare con gli scarponi in Libano? È vero che Netanyahu, dicendo ai suoi e all’esercito di prepararsi, avrebbe valutato il piano del generale a capo delle forze del Nord, Ori Gordin, il quale penserebbe alla creazione di una zona cuscinetto per ottenere e stabilizzare l’arretramento di Hezbollah? È vero che il ministro della difesa, Yoav Gallant, pur essendo favorevole a un appesantimento del contrasto di Hezbollah, rema contro sui tempi e sui modi? È vero che è già pronta la sostituzione di Gallant, una decisione che Bibi non formalizza solo perché sa che gliene verrebbero guai di accreditamento anche più gravi di quelli con cui già deve fare i conti?

Per cinque giorni – e ancora fino a ieri – nella chiacchiera su tutte queste ipotesi ci si è affidati perlopiù a una mezza notizia diffusa da una non primaria emittente israeliana – Channel 13 – che dava conto di un incontro riservato durante il quale avrebbero avuto sfogo le discussioni e i litigi sull’apertura del “nuovo fronte”. Dicitura, quest’ultima, non a caso rimbalzata dappertutto grazie all’abitudine – insieme pigra e maliziosa – cui la stampa maggioritaria si abbandona facendo il copia-incolla della notizia che cade in taglio alla tesi da dimostrare. Nel caso specifico, appunto, l’assunto secondo cui un’eventuale intensificazione dell’iniziativa israeliana in Libano – per ora solo difensiva e di contenimento – rappresenterebbe l’apertura di un “nuovo” fronte di guerra, naturalmente per effetto di una pazzotica decisione del primo ministro fuori controllo, incurante delle contrarietà manifestate dal suo ministro della difesa e da parte di altri settori dell’esercito.

Il fatto che non si tratti in nessun modo di un “nuovo” fronte della guerra, bensì degli strumenti, dei modi e dei tempi per intervenire in un fronte aperto da undici mesi – e non da Israele, ma da Hezbollah – è ovviamente un dettaglio che sfugge al cronista e al commentatore impegnati a descrivere la brama genocidiaria del paese guidato dal criminale di guerra nell’attesa dell’ordine di cattura della giustizia internazionale.

E attenzione. Non sono certamente inesistenti – né infondate – le ragioni che militano per una grandissima cautela nel dare corso a iniziative più penetranti a Nord, tanto più nel caso esse prevedessero l’entrata e lo stanziamento di truppe. Anche dal punto di vista della società israeliana, quel possibile scenario è temuto nel ricordo delle tragiche esperienze libanesi del passato.

Ma nessuno, lì, sentirebbe di assistere all’apertura di un fronte “nuovo”: se non per altro, perché lì si sa ciò che altrove si ignora o si trascura, e cioè che i razzi e i droni di Hezbollah hanno reso inabitabile un’intera regione facendo repulisti di sessantamila israeliani costretti ad abbandonare le loro case. Non hanno torto gli analisti che addebitano a Netanyahu l’incapacità di far comprendere alla comunità internazionale che una guerra di Israele “nel” Libano sarebbe contro la guerra che viene a Israele, da undici mesi, “dal” Libano. Non hanno torto quando gli imputano di non aver saputo convincere la comunità internazionale della necessità comune di intraprendere iniziative di deciso contrasto dell’inesausta campagna di aggressione in cui, dal confine, Hezbollah si esercita verso Sud.

Ma era – e continua a essere – una comunità internazionale assai ben disposta a chiudere gli occhi su quelle verità plateali, a fare spallucce davanti all’evidenza di un Paese esposto a iniziative belliche altrui. E a farlo per un motivo tanto inconfessato quanto imperante, vale a dire che è costituita da israeliani quella massa di profughi, che sono israeliani i villaggi disabitati e le fattorie incenerite, che sono israeliani i civili contro cui puntano centocinquantamila missili delle milizie filo-iraniane. E che è israeliano (dunque si può) il governo cui si intima da undici mesi di non mettere in pericolo la sicurezza planetaria solo per il capriccio di proteggere i propri cittadini.