Il giorno dopo il viaggio del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, e subito dopo avere incontrato il premier britannico Rishi Sunak, Benjamin Netanyahu è partito per il fronte con un messaggio molto chiaro per i suoi militari: “L’intero popolo di Israele è al vostro fianco e assesteremo un duro colpo ai nostri nemici per ottenere la vittoria”. Il passo del premier israeliano, ripreso mentre salutava i suoi soldati, era quello di chi vuole mostrare il massimo della sicurezza senza lasciare trasparire dubbi sulla campagna militare avviata dopo l’attacco del 7 ottobre. Nelle stesse ore a parlare è stato il ministro della Difesa Yoav Gallant, che alle truppe della Brigata Givati ha detto: “Ora vedete Gaza da lontano, presto la vedrete dall’interno”. Segnale di un’avanzata imminente che si è unito alle parole del generale Yaron Finkelman, guida del Comando sud, il quale aveva rivelato che la battaglia si stava “spostando in territorio nemico”.

A quasi due settimane dall’attacco che ha sconvolto lo Stato ebraico, l’assedio alla Striscia di Gaza ha così cambiato registro. I raid aerei non si sono mai interrotti. In due degli ultimi bombardamenti sono stati uccisi Jehad Mheisen, capo delle forze di sicurezza di Hamas, e Jamila al-Shanti, vertice femminile del movimento e vedova di Abdel Aziz al-Rantisi, uno dei cofondatori dell’organizzazione. Target di una lunga lista di omicidi eccellenti che servono alle Idf per decapitare Hamas. È chiaro però che il vero obiettivo delle Israel defense forces è ed è sempre stato quello di colpire le milizie puntando dritto al cuore della Striscia. Il viaggio di Biden a Tel Aviv può essere stato il giro di boa. Il capo della Casa Bianca ha dato il semaforo verde all’operazione militare mostrando di comprendere pienamente il sentimento di Netanyahu e del Paese. Allo stesso tempo, però, l’esortazione di Biden sul “non commettere gli stessi errori” che fecero gli Stati Uniti dopo l’11 settembre sembra avere indicato la rotta che Washington vuole che venga seguita. A questo proposito, interessante un editoriale del quotidiano Haaretz, secondo cui la Casa Bianca avrebbe “dettato le regole del gioco” a Netanyahu in cambio della garanzia del sostegno militare Usa. Il gabinetto di guerra sembra dunque avere deciso di puntellare il piano per colpire la Striscia aspettando di chiarire i dubbi palesati da Washington.

E forse è questo ad avere provocato un certo ritardo nel piano di sradicare Hamas attraverso un’incursione via terra e con una campagna militare che, a detta del governo, dovrebbe cambiare il volto della regione. Questo ritardo è legato non solo ai pericoli di un conflitto casa per casa a Gaza contro un nemico ben strutturato e con milioni di civili utilizzabili come scudi umani, ma anche appunto agli avvertimenti posti dall’amministrazione americana, che ha intanto blindato il Medio Oriente con navi e aerei. Al timore per la vita degli ostaggi palesato dallo stesso Biden, infatti, si è aggiunta negli ultimi tempi una crescente preoccupazione Usa per l’apertura di altri fronti. In Cisgiordania, la situazione è tutt’altro che tranquilla, con le forze di sicurezza israeliane che hanno arrestato più di 500 ricercati palestinesi dal giorno dell’attacco di Hamas. Attacco in cui i miliziani sembra abbiano fatto uso della “droga del jihad”, il Captagon. Dal Libano, intanto, non smette la pioggia di razzi, a cui corrispondono i missili lanciati dall’artiglieria israeliana. Washington sta premendo indirettamente su Hezbollah affinché non si unisca alla causa di Hamas. E in questo senso, la rivendicazione fatta ieri da parte dell’organizzazione palestinese di un lancio di missili contro il nord di Israele dal Libano può essere interpretato come un segnale di assorbimento del fronte nord nel quadro della sola lotta contro Hamas.

Anche Gallant ha detto che le Idf, al momento, hanno come unico obiettivo la Striscia. Ma la notizia dei droni contro le basi Usa in Iraq e Siria sembra essere stato un ulteriore avvertimento sul pericolo di un allargamento del conflitto, dal momento che spesso gli avamposti a stelle e strisce sono stati attaccati da milizie legate all’Iran. E Teheran resta il grande protagonista “nascosto” di questa crisi. I segnali hanno indotto quindi alla cautela: la stessa che ha chiesto Biden, pronto a fornire aiuti a Israele per 40 miliardi di dollari. La “pausa di riflessione” nell’assedio delle Tsahal, le forze armate con la stella di Davide, è servita inoltre per iniziare a discutere dell’eventuale dopoguerra, su cui molti continuano a interrogarsi. Biden ha parlato della possibile occupazione della Striscia come di un errore da non compiere. L’ex premier israeliano Yair Lapid, leader d’opposizione che non si è unito al governo di emergenza, ha rivelato al Times of Israel che la soluzione migliore, anche se non ideale, è “il ritorno a Gaza dell’Autorità nazionale palestinese”. In tanti vogliono evitare che la sconfitta di Hamas si tramuti in un vuoto di potere parallelo a milioni di persone sfollate e una catastrofe umanitaria imminente, e chiedono al governo israeliano di definire chiaramente una “exit strategy”. Su questo punto, non sono stati sciolti tutti i dubbi, mentre intanto provano muoversi anche i leader dei Paesi mediorientali, preoccupati la situazione possa sfuggire di mano, e che si riuniranno domani al Cairo insieme ad altri rappresentanti internazionali per un incontro voluto dal presidente Abdel-Fattah El-Sisi. Tutti hanno mostrato piena solidarietà alla causa palestinese condannando Israele per l’assedio e per l’esplosione dell’ospedale di Gaza (su cui le versioni iniziano a essere molto diverse anche per quanto riguarda il numero delle vittime), ma giocano anche su un delicato equilibrio tra opinioni pubbliche intrise di rabbia e partnership con gli Usa che non possono essere abbandonate. La scelta di Israele di evacuare molte ambasciate dal Nord Africa al Medio Oriente sottolinea i timori su un incendio che può divampare ovunque.