Benjamin Netanyahu ha deciso che la risposta all’Iran per i missili ci sarà, e probabilmente a breve. Ma, secondo quanto rivelato dal Washington Post, il premier avrebbe garantito al presidente USA Joe Biden che questa reazione non sarà diretta contro siti nucleari e impianti petroliferi ma solo contro le basi militari di Tehran. E in questa scelta, molto dipende proprio dal rapporto con il suo migliore alleato: gli Stati Uniti.

Netanyahu sa che deve iniziare ad assecondare le richieste di Biden. Il capo della Casa Bianca ha fatto capire di non volere un attacco agli impianti atomici di Teheran. Ha poi chiesto a Israele, anche per le pressioni dei leader del Golfo Persico, di evitare un attacco massiccio sugli impianti petroliferi. Scenario che potrebbe portare a una pesante ritorsione iraniana verso raffinerie e giacimenti arabi ma anche a un possibile shock sui mercati energetici. Il pressing non riguarda solo Teheran, ma in generale tutti i fronti di guerra di Israele.

Le misure nei prossimi 30 giorni

In questi giorni i media americani, israeliani e libanesi avevano rilanciato l’indiscrezione che da Washington sarebbe arrivato l’ultimatum al governo israeliano di fermare i bombardamenti su Beirut. Elemento confermato dallo stesso primo ministro libanese Najib Mikati, che ieri ha detto di aver “ottenuto una sorta di garanzia per allentare l’escalation nella periferia Sud e a Beirut, e gli americani sono seriamente intenzionati a fare pressione su Israele per un cessate il fuoco”. E ieri il giornalista Barak Ravid ha dato la notizia che il segretario di Stato, Antony Blinken, e il capo del Pentagono, Lloyd Austin, hanno chiesto allo Stato ebraico “di adottare misure nei prossimi 30 giorni per migliorare la situazione umanitaria a Gaza” se non vuole subire lo stop alla fornitura di armi da parte di Washington.

Il tema delle armi

Gli Stati Uniti sanno che quello delle armi è un tema particolarmente delicato per il governo Netanyahu. Per paura della possibile ritorsione iraniana in caso di attacco a Teheran, il Pentagono ha deciso di schierare in Israele il sistema Thaad, fondamentale per abbattere missili a lungo raggio, e un centinaio di uomini per farlo funzionare. E proprio ieri il Financial Times ha lanciato l’allarme sull’intero scudo difensivo israeliano per gli attacchi dal cielo. Per gli analisti sentiti dal quotidiano finanziario, Israele deve prepararsi ad affrontare una carenza di missili intercettori. Boaz Levy, amministratore delegato di Israel Aerospace Industries, ha detto che la produzione nelle sue fabbriche è “24 ore su 24, sette giorni su sette”. Ma Ehud Eilam, ex esperto della Difesa, ha ammesso che “è solo questione di tempo prima che Israele inizi a rimanere senza intercettori e debba dare priorità al modo in cui vengono schierati”. Un problema di non poco conto per il governo e per l’esercito, che si trovano a combattere su diversi fronti e con un Hezbollah, in Libano, capace ancora di lanciare centinaia di missili al giorno contro Israele.

Tensioni Unifil

La guerra, nel fronte Nord, è molto complessa. Lo è soprattutto a livello diplomatico, in particolare per le tensioni con Unifil. Ieri il presidente francese Emmanuel Macron ha lanciato un avvertimento al governo israeliano: “Netanyahu non deve dimenticare che il suo paese è stato creato con una decisione delle Nazioni Unite, quindi non deve disattendere le decisioni dell’Onu”. C’è stata anche una telefonata tra il capo di Stato maggiore della Difesa italiano, il generale Luciano Portolano, e il suo omologo israeliano, il generale Herzi Halevi, ed è previsto anche il prossimo arrivo della premier Giorgia Meloni a Beirut. Ma il problema del Libano è pure militare. Secondo i media, lo Stato ebraico avrebbe già schierato in Libano una quinta divisione. Soltanto tra lunedì e martedì i morti per i raid dell’Idf sono stati 41, di cui la metà solo nel villaggio cristiano di Aitou, nel Nord del paese. I bambini sfollati sono già 400mila. E molti temono una guerra logorante in uno scenario che forse è quello preferito da Hezbollah.