Israele continua a contare i suoi morti, mentre le bombe piovono su Gaza e le truppe dello Stato ebraico si muovono intorno alla Striscia. E mentre Israele prova a riprendersi dalla furia omicida di Hamas, l’assedio prende forma. Decine di migliaia di palestinesi provano a cercare rifugio lontani dalle loro case o sperano di riparare in Egitto, mentre le notizie dalla roccaforte di Hamas parlano dell’interruzione dell’elettricità, di ospedali al collasso e di un migliaio di morti.

Le Nazioni Unite hanno avvertito del rischio di una catastrofe umanitaria. E anche gli Stati Uniti, che si sono mostrati subito pienamente dalla parte di Israele, hanno chiesto al governo dello Stato ebraico di ridurre al minimo le vittime civili mentre si lavora per tentare la strada dei corridoi umanitari. Tutte le opzioni restano sul tavolo, anche se è chiaro che Israele dovrà in qualche modo dimostrare di rispondere in modo deciso all’attacco terroristico senza precedenti contro la sua popolazione. I morti registrati dalle autorità israeliane sono più di 1200, mentre i feriti sono già tremila. Una ferita profonda, forse insanabile, e dalla quale la politica israeliana sembra scuotersi solo nelle ultime ore.

Le mosse del governo israeliano

L’accordo tra il premier Benjamin Netanyahu e Benny Gantz per un governo di unità nazionale è il primo segnale insieme alla nascita del gabinetto di guerra allargato al ministro della Difesa Yoav Gallant, all’ex capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot e al ministro per gli Affari strategici Ron Dermer. A questo organo è assegnato il compito più difficile nel momento più drammatico della recente storia israeliana. E i punti interrogativi sono ancora molti. I razzi lanciati contro Ashdod e Ashkelon e l’annuncio delle brigate Ezzeddin al-Qassam di aver sparato missili su Haifa confermano che Hamas e le altre sigle terroriste sono ancora in grado di colpire il territorio israeliano e metterne in pericolo gli abitanti.

Resta sempre alta l’attenzione sugli ostaggi: un fattore che ha fatto attivare non solo le forze speciali israeliane ma anche la diplomazia. Lo stesso ministro degli Esteri Antonio Tajani, in visita in Egitto, ha chiesto al presidente Abdel Fattah al-Sisi e al ministro Sameh Shoukry, “di fare tutto ciò che è possibile” per la liberazione delle persone rapite da Hamas. E delle circa 150 persone finite nelle mani dei terroristi ha parlato anche Papa Francesco, che al termine della tradizionale udienza generale del mercoledì ha chiesto l’immediato rilascio dei sequestrati.

Il confine instabile con il Libano

Inoltre, quanto accade nel sud del Libano è un dossier che getta più di un’ombra. Le forze armate israeliane hanno colpito postazioni di Hezbollah e miliziani palestinesi che si muovono nella parte meridionale del Paese dei Cedri, oltre la Blue Line. Le sirene hanno suonato in molte città del nord dello Stato ebraico per droni provenienti da oltreconfine. E il timore è che la miccia possa incendiare una situazione che, come spiegato da Unifil, rimane “di stabile instabilità”.

Washington, stando a quanto rivelato dalla Cnn, starebbe lavorando con gli alleati europei, il governo libanese e il presidente del Parlamento, Nabih Berri, per convincere Hezbollah a evitare di entrare direttamente nella partita. Hassan Nasrallah, il leader della milizia, sembra rifletterci, così come l’Iran suo dominus. È vero che l’apertura di un altro fronte a nord renderebbe molto più difficile il lavoro delle Idf contro la Striscia di Gaza. Ma è altrettanto vero che né la milizia sciita né l’Iran possono permettersi una guerra che rischia di deflagrare in qualcosa di troppo grande e che sfuggirebbe anche alla loro stessa agenda.

Per ora, escludendo schegge impazzite e fiammate inattese, è possibile che la milizia sciita preferisca solo premere su Israele, tentando di distrarlo o provando a strappare accordi migliori con altri attori internazionale. Inoltre, la grave crisi libanese e la presenza dei caschi blu di Unifil potrebbero essere ulteriori deterrenti politici, considerato anche che Hezbollah ha meno presa rispetto agli scorsi anni.

Iran e Stati Uniti

Sul ruolo dell’Iran nell’attacco e nella gestione della crisi si sono concentrati anche gli Usa. Ma da Oltreoceano continuano a giungere messaggi che evitano di considerare Teheran come grande regista occulto dell’escalation. Indubbiamente i legami tra Hamas e gli Ayatollah esistono: ma a Washington preferiscono andarci cauti, dal momento che non può essere dimenticato né lo sviluppo di Hamas come organizzazione terroristica autonoma e rivale di altre fazioni locali, né il ruolo di altre potenze impegnate da anni nel rafforzare e interloquire con la milizia che controlla la Striscia di Gaza.

A questo proposito, interessante la rivelazione del New York Times, secondo cui Morgan Muir, dirigente dell’intelligence Usa, avrebbe confermato ai membri del Congresso americano l’assenza di un ruolo diretto iraniano tanto che alcuni leader della Repubblica islamica sarebbero rimasti addirittura sorpresi dall’assalto di Hamas. Le versioni in questo caso rimangono sempre molteplici e gli indizi portano a diverse verità. In ogni caso, quello che appare certo è che al momento il desiderio di Israele e dei suoi alleati, in primis Washington, è quello di concentrarsi su Gaza, dove l’obiettivo è quello di sradicare Hamas e Jihad islamico anche intervenendo via terra e invadendo la Striscia.

L’operazione via terra a Gaza

L’operazione per le Tzahal (le forze armate) è fattibile, ma rischia di essere molto complessa e soprattutto non priva di trappole. L’esercito israeliano ha tutte le capacità numeriche e tecnologiche per sferrare un attacco molto profondo su Gaza. Ma Hamas in questi anni si è plasmata su quel territorio, ha scavato tunnel più solidi, ha addestrato uomini con armi più sofisticate e ha realizzato un arsenale che è riuscito a lanciare migliaia di razzi in pochi giorni contro lo Stato ebraico. Le Idf possono partire solo dopo una lunga serie di bombardamenti e seguendo rotte già note. Tuttavia, l’imprevedibilità dell’assalto di sabato ha cambiato la percezione del rischio.

Inoltre, la milizia ha due ulteriori armi: gli ostaggi, che possono essere usati come merce di scambio o come scudi umani, e la popolazione, che rischia di essere sfruttata proprio come gli stessi ostaggi. In attesa che il gabinetto di guerra decida quindi le ulteriori mosse, intanto la diplomazia prova a decifrare quanto sta accadendo in Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno confermato la solidarietà con Israele e deciso per un rafforzamento della presenza militare nell’intera regione, ma nelle ultime ore hanno parlato anche Cina e Russia. L’inviato cinese in Medio Oriente, Zhai Jun, ha esortato tutte le parti a un cessate il fuoco immediato, mentre Vladimir Putin ha puntato il dito contro la politica Usa, definendola “un fallimento”. La Lega Araba ha espresso sostegno alla popolazione palestinese chiedendo di “fermare il massacro”. Mentre l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha ammesso che di fronte agli orrori compiuti contro Israele “non può esserci impunità”.