L’avvertimento di Avichay Adraee, portavoce in lingua araba delle Israel defense forces, è arrivato in modo perentorio: gli abitanti di Gaza avevano tempo fino alle 20 locali per dirigersi verso la parte meridionale della Striscia. “Se sei preoccupato per te stesso e per i tuoi cari, devi dirigerti a sud secondo le nostre istruzioni. Siate certi che ai leader di Hamas interessa solo proteggere sé stessi in preparazione agli attacchi nella regione”. Questa la frase conclusiva del portavoce delle Idf. Un comunicato che ha fatto seguito a quello della mattina che dava 24 ore di tempo ai residenti della Striscia di Gaza per dirigersi verso sud abbandonando la città e tutta l’area settentrionale: gli obiettivi principali dell’offensiva di Israele sulla roccaforte di Hamas.
Già nelle prime ore della sera le forze armate dello Stato ebraico avevano annunciato che alcuni reparti avevano fatto il loro ingresso nella Striscia per “raid mirati”. Il portavoce Daniel Hagari ha spiegato nel corso di un incontro con la stampa che le truppe, insieme a mezzi corazzati, si erano mosse per effettuare perquisizioni e bloccare “squadre di missili guidati anticarro che intendevano infiltrarsi in territorio israeliano”. Missioni che per Hagari fanno parte dello sforzo compiuto dalle Idf per “trovare elementi utili sui dispersi e sugli ostaggi”. Un primo assaggio dell’invasione via terra che ora tiene con il fiato sospeso tanto l’opinione pubblica israeliana quanto quella palestinese, entrambe preoccupate del potenziale bagno di sangue al pari dei comandi delle Idf, delle Nazioni Unite, dei leader dello Stato ebraico e del mondo.

Una fase complicata, gestita ora dal gabinetto di sicurezza che vede insieme il premier Benjamin Netanyahu, sotto pressione per il disastro dell’attacco di sabato scorso da parte di Hamas, e il leader dell’opposizione Benny Gantz, ex generale che conosce bene le forze armate e il loro modo di agire. La diplomazia, intanto, si muove per cercare di operare su quella che appare come una vera e propria faglia sismica geopolitica in cui si intrecciano i destini regionali quanto (probabilmente) quelli mondiali. In Israele è arrivato anche il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, che ha espresso di nuovo la piena solidarietà all’alleato dimostrata anche dal rafforzamento della presenza militare Usa in tutta la regione. Il giorno prima era stato il turno del segretario di Stato Anthony Blinken, che dopo aver fatto tappa a Tel Aviv, ha iniziato un tour diplomatico per tutto il Medio Oriente sperando che il peso degli Stati Uniti e quello dei suoi partner regionali possa sbloccare quantomeno la grande e complessa partita degli ostaggi nelle mani di Hamas e del Jihad islamico palestinese e dei civili in fuga. Le trattative sono in salita e ogni leader regionale ha i propri interessi. I vicini di Israele, in particolare Giordania ed Egitto, sono soprattutto preoccupati dagli sfollati da Gaza e da eventuali altri territori palestinesi. Il tema è stato chiarito in particolare dal re Abdullah di Giordania durante l’incontro con il capo della diplomazia Usa.

In Qatar, Blinken ha avuto rassicurazioni sul fatto che Doha sta lavorando per ottenere corridoi umanitari per i civili e per la liberazione delle persone in mano ai terroristi. Ma è chiaro che i corridoi senza il placet dei Paesi vicini diventano un enorme punto interrogativo. Gli Stati Uniti non solo gli unici a muovere i fili della propria diplomazia. A farlo è stato anche il principale avversario regionale tanto degli Usa quanto di Israele, e cioè l’Iran, il cui ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, ha incontrato a Beirut, in Libano, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. La visita del ministro di Teheran conferma, soprattutto a livello propagandistico, l’asse della mezzaluna sciita che unisce la Repubblica islamica con il Partito di Dio. Un’alleanza che preoccupa soprattutto per la possibile accensione del fronte nord di Israele, che negli ultimi giorni vive momenti di altissima tensione.
Dal giorno dell’attacco di Hamas, le forze sciite e membri delle sigle palestinesi hanno colpito in territorio israeliano e hanno tentato di infiltrarsi oltre la cosiddetta “Blue Line”. Israele ha risposto con attacchi missilistici da elicotteri e carri armati e ieri sera è giunta la notizia che proprio durante uno di questi attacchi è stato ucciso Issam Abdullah, reporter che lavorava per la Reuters e che si trovava nel villaggio di Alma al Shaab insieme ad altri colleghi, tra cui Thaer Al Sudani e Maher Nazeh, questi ultimi rimasti solo feriti.

Nelle stesse ore, le Idf hanno affermato che un loro drone ha colpito “obiettivi terroristici appartenenti all’organizzazione di Hezbollah in Libano”. E il timore è che da una serie come questa di incidenti di confine possa innescarsi un incendio che vada a investire così non solo Gaza e i territori palestinesi ma anche il Paese dei Cedri. Un nervo scoperto, ma soprattutto un grande nodo da sciogliere. Né Israele né Hezbollah (e con esso l’Iran) avrebbero interesse al momento ad aprire un confronto diretto nel sud del Libano. Anche il numero due degli sciiti filoiraniani, Naim Qassem, si è limitato a dire che, quando arriverà “il momento per l’azione”, sarà colto. Lasciando però il dubbio che possa non essere quello dell’assedio di Gaza. Il rischio che gli eventi precipitino è però sempre in agguato e la tensione, come confermano anche le proteste in vari Paesi a maggioranza musulmana, potrebbe diventare insostenibile senza una netta presa di posizione in senso di rasserenamento quantomeno di quel fronte. Intanto, le forze israeliane hanno rafforzato il confine, evitando però di distogliere troppe forze da quelle che resta il vero obiettivo: la roccaforte di Hamas. È la Striscia di Gaza, e in particolare Gaza city, il nucleo fondamentale del piano di guerra di Netanyahu. E per il premier israeliano non ci sono dubbi: “Hamas è come l’Isis e va trattata allo stesso modo”.