Al World economic forum di Davos è stato il giorno del presidente israeliano Isaac Herzog. Il capo dello Stato ebraico ha fatto il suo discorso con al suo fianco la foto di Kfir Bibas, l’ostaggio più giovane che è ancora nelle mani di Hamas. Ieri era il suo compleanno: un anno di vita di cui un quarto passato tra le mani dell’organizzazione palestinese. Hamas ha detto che l’intera famiglia è stata uccisa dalle bombe israeliane piovute su Gaza. Ma il governo non ha mai verificato questa informazione e continua a parlare di “terrore psicologico” per scuotere l’opinione pubblica. Herzog ha spiegato in modo chiaro il sentimento che predomina nel Paese.

I cittadini israeliani, secondo il presidente, hanno ormai perso fiducia nel processo di pace perché vedono “che il terrorismo viene glorificato dai nostri vicini”. “Per cambiare questa atmosfera ci deve essere innanzitutto il rilascio degli ostaggi”, ha continuato Herzog, secondo il quale “nessuno sano di mente è disposto a pensare a quale sarà la giusta soluzione degli accordi di pace. Tutti vogliono sapere che non verranno attaccati allo stesso modo da nord, da sud o da est”. E richiedendo ancora una volta alla comunità internazionale le garanzie di sicurezza per lo Stato ebraico, Herzog ha anche parlato del futuro della Striscia di Gaza, immaginando “una coalizione di nazioni che vogliono impegnarsi a ricostruire Gaza”. Una coalizione di potenze occidentali e mediorientali con cui istituire un interlocutore palestinese che escluda Hamas da qualsiasi futuro ruolo politico.

Gli spunti forniti dal capo dello Stato ebraico non sono pochi. Da un lato c’è il nuovo richiamo al tema degli ostaggi. Una questione su cui è intervenuto anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che ieri, incontrando alcune persone liberate dalla prigionia di Hamas, ha rivelato di portare sempre con sé una targhetta metallica usata da molti israeliani in solidarietà con gli ostaggi che recita lo slogan “Bring them home now”. L’immagine può sembrare secondaria. Ma dal punto di vista simbolico rileva in chiave di ricucitura dello strappo tra Israele e il Palazzo di Vetro, molto distanti riguardo l’operazione militare nella Striscia. Dall’altro lato le dichiarazioni di Herzog segnano anche un passo importante della politica di Israele riguardo la guerra ma in particolare sul futuro dell’exclave palestinese.

Herzog, che rappresenta la massima autorità del Paese, non ha chiuso le porte in maniera definitiva alla soluzione dei due Stati, ma ha chiarito che prima di discutere del tema c’è bisogno che Israele riceva garanzie nitide sulla sua sicurezza. A questo proposito, non è forse un caso che il Financial Times ieri abbia riportato l’indiscrezione secondo cui alcuni Stati arabi starebbero lavorando attraverso diversi canali diplomatici per raggiungere un accordo che preveda un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il rilascio di tutti gli ostaggi in cambio di una serie di “passi irreversibili” sulla nascita e il riconoscimento di un futuro Stato palestinese e sul quale si sta cercando il pieno coinvolgimento e sostegno di Stati Uniti e Paesi dell’Europa. E proprio ieri, anche Herzog ha sottolineato l’importanza di normalizzare i rapporti con l’Arabia Saudita: processo interrotto con l’assalto del 7 ottobre e l’inizio della guerra contro Hamas.

Sul tema, vale la pena ricordare anche quanto scritto sempre ieri da Ncb News. Secondo il media Usa, la trattativa per la pace tra Arabia Saudita, Israele e Stati Uniti esiste, ma la destra radicale israeliana, così netta riguardo l’impossibilità di accettare uno Stato palestinese, renderebbe molto difficile il raggiungimento di un’intesa più o meno definitiva, facendo inoltre pressioni su un Benjamin Netanyahu in difficoltà sul fronte leadership.
La macchina della diplomazia in ogni caso sembra muoversi. E questo mentre la guerra a Gaza continua e l’escalation regionale supera ormai i normali livelli di guardia. Dopo la risposta missilistica pakistana al raid dell’Iran degli scorsi giorni, l’Europa sembra avere ulteriormente accelerato riguardo la nascita di una coalizione continentale (e non solo) per fare da deterrente agli attacchi degli Houthi contro le navi commerciali nel Mar Rosso e nel golfo di Aden. E secondo il ministro degli Esteri Antonio Tajani, sulla missione Ue (denominata Aspis) potrebbero esserci già delle decisioni nella giornata di lunedì. Intanto, dopo che la milizia dello Yemen ha ribadito che gli attacchi alle navi Usa, Uk e a quelle dirette in Israele non cesseranno, il presidente americano Joe Biden ha garantito che proseguiranno anche i bombardamenti contro le postazioni dei ribelli. E l’impressione è che l’escalation del Mar Rosso possa durare fino a che non si troverà una linea di convergenza su tutti gli incendi esplosi nella regione. Con il ministro della Difesa, Yoav Gallant, che rimette l’accento sul Libano: “Va tenuto conto della possibilità che la situazione della sicurezza peggiori nel nord”.