Le rivolte contro la riforma della giustizia
Israeliani spaccati, perché la riforma di Netanyahu ha scatenato la protesta
Mentre i francesi sfilavano nelle strade per protestare contro una legge che li obbligava a lavorare un po’ più che negli ultimi anni, ma comunque meno dei cittadini degli altri paesi europei, in Israele da settimane la folla ha occupato le strade di Tel Aviv e di molte altre città del paese per una questione concernente lo stato di diritto: il perimetro concesso al potere giudiziario e alla Corte suprema, che, secondo le opposizioni, sono stati radicalmente minacciati dal governo di Benjamin Netanyahu.
Negli ultimi decenni abbiamo visto più volte cittadini manifestare contro l’esistenza di un regime autoritario: da Lipsia contro il regime sovietico, ai paesi del Nord Africa contro le dittature locali. Ma non è facile trovare altri casi in cui in una democrazia, qui nel senso di un regime politico in cui l’autorità politica viene scelta attraverso elezioni libere e competitive – come Israele – la popolazione si mobiliti per settimane protestando contro leggi che, secondo i manifestanti e buona parte della popolazione (compresa una quota che pure aveva votato per Netanyahu alle ultime elezioni) mettono in questione addirittura le fondamenta e i valori dello stato costituzionale. Qualcosa del genere non è accaduto in misura minimamente comparabile né in Ungheria né in Polonia quando le maggioranze dei rispettivi governi hanno smantellato lo stato di diritto, controllando le nomine dei giudici di praticamente tutte le alte corti di giustizia.
Prima di tornare sulla eccezionale mobilitazione della popolazione israeliana bisogna chiedersi cosa abbia spinto il primo ministro Netanyahu e il suo governo a portare dinanzi alla Knesset un pacchetto di leggi la cui approvazione è stata sospesa a causa della protesta dei cittadini. Netanyahu, leader del partito di destra, il Likud, è, come si sa, un politico di lungo corso, che è stato primo ministro per molto tempo: dal 1996 al 1999 prima e dal 2009 al 2021 e ora di nuovo, dopo le elezioni della fine dello scorso anno – record paragonabile alle performance di Kohl e Merkel. Conservatore e ostile ad uno stato indipendente per i palestinesi, Netanyahu, nella sua carriera politica non aveva mai finora promosso norme che mettessero in questione i poteri del giudiziario. Le cose sono però cambiate nel 2019, quando è stato formalmente incriminato di corruzione e frode.
Da allora, la principale preoccupazione del primo ministro pare diventata quella di sottrarsi al processo e a una probabile condanna. A seguito delle ultime elezioni del 1° novembre 2022, il Likud ha ottenuto 32 seggi dei 120 che compongono la Knesset, il parlamento monocamerale del paese. La sola possibilità per Netanyahu di tornare alla testa del governo e proteggersi di conseguenza nei confronti della giustizia era dunque una alleanza con i tre partiti della destra radicale che, avendo ottenuto a loro volta 32 seggi, permettevano alla coalizione di ottenere 64 seggi e dunque la maggioranza. È grazie a questo accordo che Netanyahu è potuto divenire nuovamente Primo Ministro: ma, per conseguire questa carica, ha dovuto cedere ministeri importanti ai membri più estremisti della coalizione.
Questi avrebbero volentieri appoggiato la riforma che smantella l’indipendenza del potere giudiziario, istituendo un rigoroso potere della maggioranza sulla nomina dei giudici e cancellando il controllo della Corte sulle leggi della Knesset che si è affermato lentamente in Israele, come è avvenuto per altro negli Stati Uniti, la cui costituzione non parla di controllo costituzionale, che come in Israele si è sviluppato nel tempo grazie alla Corte Suprema. Per parte sua, Netanyahu ha dovuto concedere posizioni di potere ai partiti estremisti, più ostili ai Palestinesi e, per certi versi, allo stesso stato di diritto – la Corte suprema di Israele ha fatto quello che poteva per proteggere i diritti dei più deboli. Ma il governo e la maggioranza parlamentare non avevano fatto i conti con la popolazione che è scesa in misura estremamente numerosa – e, per certi versi inaspettata – in piazza contro le proposte di legge. La situazione si è rovesciata a favore della opposizione quando prima i riservisti, i cittadini che hanno fatto il servizio militare e che restano a disposizione in permanenza per la difesa del paese, e poi il ministro della difesa e membro del Likud, Gallant, ha rassegnato le dimissioni sostenendo che la spaccatura nel paese minacciava la sua sicurezza.
La rivolta di così tanti israeliani alla svolta del governo ha dunque obbligato il primo ministro, spinto a questa scelta anche dal Presidente Herzog e dalle critiche dell’amministrazione Biden, a sospendere la votazione delle leggi ostili al potere giudiziario e ad aprire dei negoziati con l’opposizione centrista di Lapid e Gantz. La Pasqua ebraica permette la sospensione dei lavori parlamentari. Non è possibile sapere quali risultati potranno emergere dal confronto fra la maggioranza ed opposizione: si sa che Netanyahu è una vecchia volpe politica. Sta di fatto che oggi Israele è minacciato e spaccato non solo a causa della irrisolta questione palestinese, ma anche dalla fine delle ostilità fra sunniti e sciiti, e ancora di più dalla contrapposizione crescente fra la popolazione secolare e gli ultraortodossi, che peraltro godono di numerosi privilegi fiscali e sono esonerati dal servizio militare che è invece obbligatorio per tutti gli altri.
Questa contrapposizione interna rischia di minare sempre più l’unità dello Stato, come si evince, peraltro, anche dai risultati delle numerose consultazioni elettorali tenutesi in questi anni. La disputa sui poteri dei magistrati e della Corte è stata la miccia che ha innescato uno scontro peraltro già latente da tempo, con veri e propri odi reciproci tra diversi settori di popolazione. Ma non è solo la classica goccia che fa traboccare il vaso. Si tratta di una questione fondamentale per la sopravvivenza stessa dell’unica democrazia del Medio Oriente: se le leggi della maggioranza non possono essere contestate da nessuno la democrazia liberale scompare e, come diceva Tocqueville, si instaura la tirannia della maggioranza.
© Riproduzione riservata