Solo le grandi religioni hanno la forza di creare una civiltà. Con queste parole lapidarie il filosofo francese Michel Onfray, in un dialogo recente con Michel Houellebecq, ha messo il dito nella piaga dell’impotenza del discorso religioso di fronte alla secolarizzazione forzata della nostra società e delle sue emergenze. Di fronte a due guerre in corso, alle conseguenze dei cambiamenti climatici, a una crisi sociale che investe tutta l’Europa e a un ritorno a ritmo di marcia di populismi ed estremismi, le religioni sembrano arretrare, confuse, su posizioni di mera testimonianza e nascondersi dietro a vaghi appelli al senso umanitario e alla solidarietà che lasciano indifferenti i governi e perlopiù smarriti tutti coloro che nelle chiese di vario tipo trovavano la certezza di una guida sicura.

Le religioni sembrano seguire il destino di stanchezza delle grandi istituzioni internazionali, come le Nazioni Unite, incapaci di incidere davvero nei processi di governo mondiale. La vulgata che si sente risuonare a destra e a sinistra è che l’Occidente, con tutto ciò che ha rappresentato, è in crisi e con esso tramontano le liberal democrazie e – di conseguenza – le religioni che ne hanno forgiato nei secoli l’anima, il carattere e ispirato valori e scelte.

L’insofferenza anti-occidentale è condita da un’approssimazione nichilista che rimuove le sue stesse radici e dimentica proprio quella strenua difesa di libertà e laicità che permette a ogni critica, anche la più feroce, di avere cittadinanza e al cittadino di essere tutelato da ogni ortodossia oscurantista. Un certo impulso iconoclasta a liberarsi sbrigativamente dal passato, dalla cultura, dalla tradizione invoca la fine della civiltà cristiana e nutre le rivendicazioni woke, un pericoloso antisemitismo di ritorno, e una frammentazione individualistica che lascia il campo a quella solitudine digitale che il filosofo Byung Chul Han ha ben definito come “infocrazia”.

Le religioni, oggi così fragili, possono sopravvivere al loro stesso esistere come mera istituzione o come patrimonio simbolico, ancora così presente nelle nostre geografie locali e continentali? La nostra “civiltà” rischia di ridursi a un semplice discorso estetico e di pura rappresentanza? Nuovi culti si affacciano all’orizzonte ed esprimono portati valoriali e identità altre. In qualche caso costruiscono un dialogo fecondo e una via di riscoperta di una viva dimensione spirituale. A volte rappresentano una proposta radicalmente alternativa al mondo occidentale, soprattutto quando assumono i caratteri di un’ortodossia intransigente, totalitaria e oppressiva.

La domanda centrale è se questi nuovi attori religiosi sapranno con onestà e fermezza accettare come condizione il pluralismo dei valori, l’architrave di una società aperta e di ogni democrazia. Sulle macerie non si costruisce nulla e ben ha detto Roberto Calasso che l’uomo senza il sacro è un eterno turista. Per essere parte di una nuova civiltà dunque è su questo terreno che le religioni devono disfare le valigie e tornare a incontrarsi per restituire al sacro la forza, per ridare senso all’umano e rispondere all’oblio dei nostri giorni.

Stefano Bettera

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