Diplomazia della sicurezza
Italia-Libia, quelle intese da rispettare. Caravelli a Tripoli per evitare un altro caso Almasri
Il Protocollo di cooperazione rafforzata con l’ex colonia nordafricana, inaugurato da Berlusconi, fu poi rinnovato da Minniti. L’Autorità delegata ai servizi ha rivendicato il carattere strategico del rapporto

Con la Libia c’è un protocollo che va rispettato: sono in gioco milioni di potenziali migranti. Ci sono questioni di sicurezza nazionale, ma anche di strategia geopolitica – il porto di Misurata è conteso tra Turchia e Russia –, di energia (Eni è presente in Libia con una sua struttura di business intelligence) e di rafforzamento delle intese legate al Piano Mattei.
La diplomazia della sicurezza va preservata come carta di primario interesse strategico nazionale. E proprio ieri il Dis ha richiamato, rivendicando la visita del capo dell’AISE, Giovanni Caravelli a Tripoli, «la correttezza e lealtà istituzionale delle Agenzie di intelligence». Il sottosegretario alla Presidenza del consiglio e Autorità delegata ai Servizi, Alfredo Mantovano, ha anche aggiunto che una riforma generale dei servizi non è da escludersi. «La legge 124 del 2007 ha avuto degli interventi negli anni successivi, però la disponibilità è assoluta. Ovviamente attendiamo le iniziative parlamentari», ha detto, aggiungendo: «Sapete qual è la mia opinione in generale sul sistema normativo che riguarda i Servizi, io però facendo parte del governo mi muovo sulla base della legislazione vigente, ovviamente l’iniziativa spetta o ai parlamentari o al governo nel suo insieme».
Martedì il direttore Caravelli, era stato audito dal Copasir, fornendo in due ore e mezzo tutti i dettagli sul caso Almasri come su Paragon. “Sui lavori Copasir c’è massima riservatezza, ma è lo stesso Mantovano a dirlo e stando a quello che lui stesso mi ha riferito, ovviamente nel rispetto del segreto, i componenti del comitato si sono mostrati soddisfatti dell’illustrazione, anche del dettaglio”. La Libia può manovrare i rubinetti dei migranti nel Mediterraneo a piacimento. Può aprirli, tenerli socchiusi o sforzarsi di chiuderli quasi del tutto. “E per Libia – dove l’autorità di governo, a Tripoli, rimane instabile e incerta – si intendono gli apparati di sicurezza, i dirigenti che controllano i campi di prigionia, i servizi segreti. Con i quali l’Italia deve non soltanto parlare, ma interagire con il miglior rapporto possibile. Anche perché da quando l’allora premier Silvio Berlusconi siglò il primo memorandum di intesa, nel 2008, sono intervenuti ulteriori accordi. Ma è in quel primo Trattato, siglato dal presidente del Consiglio azzurro, che veniva stabilito il proposito di «un forte e ampio partenariato», industriale e non solo, sulla difesa.
In qualche modo la presenza di militari italiani in Libia, a cominciare dagli addetti a un’infermeria a Misurata, trova una originaria legittimazione anche da lì, in un comma su «scambi di missioni di esperti, istruttori e tecnici». La cooperazione con la Libia è anche militare, sì. Ed è anche sul piano dell’intelligence: solo chi si occupa di informazioni sensibili, tra Bengasi, Tripoli e il Fezzan ha il quadro chiaro degli spostamenti dei migranti. E la loro gestione. Nove anni dopo la firma del Cavaliere, è quella del ministro Marco Minniti, titolare del Viminale nel governo Gentiloni, a rinnovare e approfondire l’intesa. Era il 2017, dal Sahel arrivavano in Libia migranti diretti in Europa. E le traversate in mare sfociavano in ripetute tragedie. Minniti convocò a Roma i rappresentanti di tre tribù libiche in guerra.
Per ridurre gli sbarchi, Minniti riteneva di dover evitare che le fazioni in guerra si finanziassero con il traffico di esseri umani da movimentare con quelle che il futuro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, definiva “taxi del mare”. E allora a quelle tribù occorreva dare un concambio di tutto rispetto. Minniti, dopo giornate di trattative febbrili, fece sì che la Libia ci garantisse pace, stabilità e controllo sui migranti in arrivo dall’Africa centrale in cambio di sostanziosi aiuti in termini di fornitura di tecnologia e know-how, sostegni umanitari e medici, pompe idrauliche e manutenzione infrastrutturale. Accordi in essere e quanto mai strategici per mantenere tra Roma e Tripoli la stretta cooperazione necessaria. Non stupisce dunque che il generale Njeem Osama Almasri sia stato riconsegnato alla sua base di appartenenza, in Libia. Malgrado i due pasticci, quello della Cpi e quello delle risposte date dal governo, la questione di sicurezza nazionale c’è tutta. Granitica e inscalfibile.
I viaggi di Caravelli
A vigilare sul mantenimento degli accordi è la Farnesina. A metterne a punto l’operatività contribuisce l’intelligence. Ed ecco che i viaggi di Giovanni Caravelli, capo dell’AISE a Tripoli sono una buona notizia, un riscontro confortante. Due settimane fa, Caravelli ha incontrato il premier libico Abdulhamid Dabaiba e il procuratore capo di Tripoli, al Sidiq al Sour, con i quali si è confrontato sui nominativi riservati di alcuni dei libici su cui la Cpi ha emanato un mandato d’arresto.
L’avvertimento di Mancini
Il capo dell’Aise ha informato su chi potrà viaggiare in Italia senza il rischio di essere arrestato. Il Riformista, intervistando l’ex capo del controspionaggio italiano, Marco Mancini, aveva dato una notizia inedita: «Mi risulta che Almasri abbia un braccio destro, Abdeladhim Tadeg Ramadan, che ha 29 anni ed è a capo di un’altra base militare, Ain-Zara, dove si incrociano traffico di armi e di droga. Sarebbe venuto in Italia, indisturbato, un anno e mezzo fa». In quel caso, peraltro, la Corte Penale Internazionale non diede particolari segni di attenzione, tanto che di quella visita – di un altro torturatore libico, com’è evidente – non aveva parlato mai nessuno.
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