La Francia ci ha rubato la partita all’Europeo in Romania. Vero. Lo hanno visto 3 milioni e 200 mila italiani, l’altro ieri sera. Dopo di che, diciamo la verità: la cosa ha generato un’indignazione relativa solo perché ne è stata vittima la nazionale under 21, e perché la formula a gironi dell’Europeo prevede possibile rimedio, tutto da realizzare, però, quindi affatto scontato. Ma fosse stato l’Europeo della Nazionale maggiore, avremmo forse chiesto di richiamare l’ambasciatore francese a Roma.
L’Uefa, cioè il governo del calcio europeo, dimostrando un’ipocrisia e un’approssimazione che lasciano basiti, pensa di rimediare introducendo il Var e la goal tecnology dai quarti di finale. Non si capisce perché allora non prevederla sin dall’inizio: ai quarti ci arrivi o meno proprio in virtù di precedenti partite che rischi di viziare grazie a errori targati Cartagine (nel senso che sono di un’altra era).
Se ne ricordino tutti quelli che per un anno hanno animato il dibattito su ‘tecnologia sì o no’ nel calcio, i nostalgici delle valutazioni artigianali cosi romantiche, senza Var tra i piedi. Ore di dibattito televisivo a stabilire se sia utile o meno mettere al riparo il più possibile (mai del tutto, è impossibile) l’operato di un arbitro dall’errore. Detto che quello dell’altra sera è riuscito a dimostrare una scarsezza tale che sarebbe bastato fosse poco più capace per limitare comunque i danni, nel calcio di oggi i valori sono molto vicini. E in quello di domani lo saranno ancor di più.
Crescono talenti a latitudini un tempo impensabili, e il futuro non sarà necessariamente appannaggio solo delle nazioni o dei club più blasonati.
Con l’avvicinarsi dei valori tecnico atletici e ormai anche tattici, che consentono per esempio all’Arabia Saudita di mettere in difficoltà (fino a batterla) l’Argentina che 3 settimane dopo avrebbe vinto il Mondiale, un episodio può decidere partite che hanno un valore simbolico enorme, ma anche economico. Non c’è da scandalizzarsi né da fare i nostalgici che piangono un calcio romantico e meno inquinato dal denaro. In un calcio che non ha certezza di ricavo (ecco perché i maggiori club europei volevano la Superlega, perché avrebbe comportato certezza di entrate quantificabili a priori, favorendo la loro sostenibilità altrimenti a rischio per definizione, oltre che per relativa capacità di un certo management sportivo) un errore arbitrale in una partita di Champions può costare milioni di euro a società che fondano anche su un solo match il loro benessere economico e la loro conseguente capacità di programmazione e investimento sportivo, dunque la capacità di fare risultato e, infine, di aumentare il fatturato e distribuire o negare lavoro.
Diverso è il dibattito di misura, cioè sull’abuso della tecnologia, che può generare a sua volta errori. Ma che la tecnologia assista il merito sportivo non c’è dubbio, e dall’altro ieri sera ne abbiamo una plastica immagine. Più in generale il calcio deve sì ottenere il riconoscimento di essere una vera industria, ma anche iniziare a ragionare da vera industria. Questo significa capacità di investimento maggiore (qui è uno psicodramma fare uno stadio, rendiamoci conto, per favore), e – viste le ultime vicende kafkiane legate alla giustizia sportiva – aggiornare un codice di giustizia per niente appropriato a società che sono aziende economicamente esposte, a volte quotate, che come oggetto sociale hanno un’attività cosi aleatoria e rischiosa che non merita giudizi o penalizzazioni basate su criteri astratti o su condotte mai tipizzate. Insomma, anche il calcio è da riformare, e noi italiani smettiamola di fare sempre i cacadubbi: la tecnologia nel calcio salva la passione dei tifosi, alimenta la sportività perché toglie l’argomento vittimistico e recriminatorio dello scarso arbitraggio, lasciando invece strada al riconoscimento del più bravo, e aiutando così a migliorare mentalità e dunque patrimonio morale delle giovani generazioni, cioè degli italiani di domani.