Forse non basta tornare con la mente al 1967 – anno d’oro della scena rock che vede l’uscita dell’album d’esordio dei The Doors – per capire i connotati culturali e l’impatto psicosociale della figura di Jim Morrison. Bisogna andare molto più lontano: all’origine della nostra civiltà, in mezzo ai miti della cultura ellenica classica. Sì, perché quello che è accaduto con Jim D. Morrison e le sue performance, tra la metà degli anni Sessanta e la sua sparizione nel nel 1971, credo rappresenti fondamentalmente il ritorno di un archetipo ben preciso, essenziale nella cultura occidentale.

Mi riferisco all’archetipo del dio Dioniso e al correlato fenomeno che studiosi come Kereny e Dodds hanno definito “Menadismo”, ossia una sorta di pazzia di massa che portava soggetti apparentemente normali a lasciare le proprie dimore per seguire in un corteo danzante e delirante, detto tiaso, la voce del dio tra le montagne. Con le sue composizioni, con le sue esibizioni live e con i suoi versi poetici, Morrison ha suscitato una sorta di follia purificatrice collettiva, violenta e sublime, stupenda e tremenda, non molto diversa dal Menadismo dionisiaco. Più che concerti, le esibizioni pubbliche dei The Doors furono degli spettacoli rituali in cui i partecipanti potevano sperimentare quella “uscita da sé stessi” che gli antichi chiamavano ek-stasi.

Espandendosi dagli eventi dal vivo nelle sue composizioni poetico-musicali, questa potenza numinosa, meravigliosa e terribile, resta nella voce di Morrison come essenza e scaturigine del suo successo, anche commerciale, a quarant’anni di distanza dalla sua scomparsa. La musica dei The Doors possiede in ultima analisi la capacità di nutrire la sete rivoltosa di follia che (ancora) percepiamo come esseri umani; risponde al bisogno di evadere dalle norme sociali precostituite, dai limiti dell’esistenza ordinaria e finanche dai confini della nostra identità soggettiva e del nostro corpo materiale. Si tratta esattamente di ciò che, nel momento aurorale della nostra società, si era incarnato nel mito di Dioniso. Per questo credo che sia utile pensare Morrison, anzitutto, come una versione post-moderna, rock-blues e psichedelica dell’archetipo del dio che i Greci invocavano come Zagreo o come Bromio, quel figlio di Zeus e Semele che venne al mondo incubato nella coscia di suo padre, sua madre essendo stata incenerita mentre lo portava ancora nel grembo per aver preteso di vedere la folgorante luce del proprio amante divino.

Prima di diventare Dioniso, nel 1964 James Douglas Morrison era un ventenne inquieto, taciturno e timido. Originario della Florida, l’infanzia l’aveva passata girovagando in molte zone degli States seguendo il destino professionale di suo padre George, Comandante di Marina. Il Signor Morrison guardava quel figlio e scuoteva la testa, preoccupato per il suo futuro. In effetti James, fino a quel momento, non ha combinato granché, se non guai: studente mediocre, nel 1961 aveva disertato la cerimonia di consegna dei diplomi (momento sacro per la società statunitense), si era fatto licenziare nei lavori stagionali che il padre gli aveva procurato e addirittura, nella primavera del ‘63, si era fatto arrestare per ubriachezza molesta dalla polizia locale di Tallahallasee.

Forse le sue ore più prolifiche e belle questo ragazzo scapestrato le aveva vissute quando la famiglia s’era trasferita ad Alameda, poche miglia lontano dal centro di San Francisco; qui il giovane aveva preso a frequentare alcuni locali, tra cui la mitica libreria City Light Books, in cui, tra una sbronza e l’altra, era possibile incontrare i più interessanti rappresentanti della scena beatnik, nel pieno del fermento della controcultura americana di quegli anni. Probabilmente è in questo momento che comincia a formarsi, in una sorta di iniziazione autodidattica, la ricca personalità intellettuale del futuro front-man dei The Doors. Il padre doveva aver perso già da un pezzo le speranze di vedere suo figlio seguire le proprie orme in Marina quando James, che ormai si fa chiamare Jim, si iscrive alla Facoltà di Cinematografia della Ucla.

Anche in questo caso sarà un fiasco, e l’Università non la finirà mai; però in compenso, sulla spiaggia di Venice Beach – che in quel periodo doveva essere un crogiolo di artisti, poeti, musicisti e girovaghi in cerca dell’armonia cosmica –, fa un incontro che cambierà il suo destino e il destino della musica e della cultura del Novecento: Ray Manzarek. È un tastierista geniale, un musicista come ne esistono pochi: coltissimo, nonché capace di suonare il basso con la mano sinistra e con la destra la parte melodica, mescolando la classica al gusto psichedelico; con lui e con il batterista John Densmore e il chitarrista Robbie Krieger fondano un gruppo di rock-blues alternativo che decidono, ispirati da una riflessione di Huxley su William Blake, di chiamare The Doors.

La loro idea è musicare le poesie che Jim ha scritto fino a quel momento, e che nessuno prima di Manzarek aveva mai letto, per farne dei pezzi musicali originali. Sono esaltatissimi. È la tarda primavera del 1965 e Jim, Ray, John, e Robbie si sentono ispirati dalla magia che sembra vibrare nel cielo di Los Angeles in quei giorni, forse i migliori della storia per avere vent’anni e alimentare i propri sogni. C’è solo un’incognita che osta: Jim, fino a quel giorno, non ha mai cantato in vita sua. Ma è proprio qui che avviene il miracolo. La metamorfosi del ragazzo della Florida senz’arte né parte nel Dio greco dell’estasi e dell’ebbrezza. Non appena comincia a modulare la sua voce calda e profonda nel microfono, corretto all’inizio musicalmente da Manzarek per le intonazioni, Jim rivela qualcosa che evidentemente covava da sempre dentro lui: è un cantante – per meglio dire: un cantore – magnifico. È il suo destino. È la reincarnazione americana di un antico aedo ellenico, di un trobadore medievale: canta con una potenza comunicativa impressionante i propri versi creando una magia che non si spiega.

Jim Morrison non è una rock-star che intona canzoni: è un poeta che fa dei propri versi storie teatrali musicali. L’alchimia dei tre musicisti eccezionali attorno a lui completa la meraviglia e nasce, così, la band le cui performance segneranno un’epoca creando sempre maggiori problemi di ordine pubblico, la cui musica passerà alla storia.
Per capire come e perché le capacità performative, poetiche e canore di Jim Morrison poterono attivare nella nostra epoca le stesse pulsioni originarie che in Grecia erano destate da Dioniso, occorrerebbe guardare attentamente alle sue radici culturali di scrittore. Radici complesse, nelle quali si mescolano una rilettura di Nietzsche in chiave di liberazione dei costumi sessuali e sociali, la lezione simbolista e ribelle di Rimbaud e Baudelaire del poeta come profeta-vagabondo, la visionarietà e l’ansia autodistruttrice di Dylan Thomas, l’erranza be-bop della Beat Generation, nonché una visione del teatro come contagio e come scandalo, conformemente alle teorie di Antonin Artaud e alle esperienze del Living Theater di Julian Beck e Judith Malina. Queste influenze eterodosse confluiscono in Morrison, che vive nella propria carne, fino alle estreme conseguenze, un impeto di delirio catartico divenendone paradigma vivente (e morente).

Certo era il tempo giusto. Non perché Morrison sia un frutto della cultura hippie, perché appunto credo non lo sia e che la questione, come sopra ho accennato, sia più complessa; ma in quanto in tale cultura il personaggio di Morrison ebbe modo di fiorire e sbocciare. Solo in quell’epoca di rivolta e libertà Dioniso poteva rinascere. Ovviamente, il fatto che sia scomparso in un’età così giovane, come se fosse il figlio più caro agli Dei, vinto dall’alcool, dalla pazzia e dalla vita, ha definitivamente consacrato la sua leggenda.

Ho detto “scomparso”, non “morto”: giacché, com’è noto, le circostanze della fine di Jim Morrison non furono mai chiarite del tutto. La versione ufficiale asserisce che gli eccessi etilici gli bloccarono il cuore in piena notte mentre era nella vasca da bagno dell’albergo al centro di Parigi in cui s’era rifugiato con la sua “compagna cosmica”, Pam Carson, per sfuggire al mondo e ai tribunali; ma in molti sostengono di averlo visto morire per overdose in un bagno del Rock-and-Roll Circus, locale di tendenza della Parigi anni Sessanta; altri affermano che svenne, sfinito, dopo una corsa folle tra i tetti della capitale francese, battendo la tempia contro una grondaia; altri ancora dicono che abbia volontariamente messo fine ai suoi giorni.

C’è anche chi pensa, e non sono pochi, che quel 3 di luglio di quarant’anni fa Jim Morrison non sia morto affatto: avrebbe solo inscenato la sua dipartita terrena, per lasciarsi tutto alle spalle e andare a vivere sotto mentite spoglie nell’isola hawaiiana di Maui, dove starebbe ancora. Non so quale tra queste teorie sia meno assurda. A me piace pensare che in realtà quella notte Jim si addormentò ubriaco per un vicolo di Parigi e Zeus, vendendolo, riconobbe suo figlio e se lo legò nuovamente nella coscia, in attesa di farlo rinascere ancora.