La recensione
Kabloona: il viaggio verso l’inconsueto di Gontran de Poncins
Un visconte, discendente di Montaigne, decide di abbandonare le comodità di Parigi, le abitudini, i saperi dell’uomo civilizzato, e di mettersi in moto verso l’estremo Nord: un universo lontanissimo

“Kabloona” (Adelphi) è il magnifico racconto di un viaggio ai confini del mondo, un viaggio verso l’inconsueto che Gontran de Poncins fa nel 1938. Ed ecco che il visconte, discendente di Montaigne, decide di abbandonare le comodità di Parigi, le abitudini, i saperi dell’uomo civilizzato, e di mettersi in moto verso l’estremo Nord: lì dove resiste un universo lontanissimo, nella rigidità del clima e nei paesaggi fasciati di bianco, nella lingua e nel pensiero degli abitanti, usi e i costumi di una delle popolazioni più “primitive” dell’Artico. De Poncins risale in su nello spazio e indietro nel tempo fino a ritrovarsi in mezzo agli “Inuit”, fra gli indigeni più arcaici di queste terre e, con loro, nell’età della Pietra.
Il visconte, che solo un mese prima era circondato da tutta Parigi, da tutto ciò che a Parigi conta, se ne sta ora imbacuccato nelle pellicce di enormi animali dentro un riparo fatto di neve. È il senso più antico e rappresentativo del viaggio: perdersi. Un processo a volte lento e a volte tortuoso, ostacolato dai meccanismi messi in moto per difenderci dall’incubo dello smarrimento a cui la diversità costringe, dalla paura di rinnegare fino in fondo noi stessi. Tuttavia può capitare di sentirsi in quest’altrove – sconosciuto e spaventoso, ricco di sorprese da cogliere ma anche di incognite da evitare –, perfino felici, stranamente felici, rilassati e contenti.
“Ero in pace con me stesso; e di tutte le cose al mondo la più rara è di sicuro un essere civilizzato in pace con sé stesso”, scrive de Poncins con la tenera autenticità e l’ironica tenerezza che illumina anche molti altri passaggi successivi. In veste di reporter, nella sua vita, il visconte parigino ha fatto lunghi soggiorni in svariate parti del mondo, ma adesso, Kabloona – l’uomo bianco, come lo indicano gli eschimesi – punta a qualcosa di diverso, più ambizioso, qualcosa che è davvero complesso. Vuole concedersi l’incontro con una mentalità altra da quella che lo ha cresciuto e ha dato senso, fino ad oggi, ai suoi giorni: vuole perdersi. Mentre il viaggio prosegue, dunque, Kabloona mette in contatto il proprio sé con quello eschimese, un sé non europeo, nel desiderio di poter assistere alla sostituzione.
Il francese che alberga in lui si ribella e farà di tutto per non cedere. Ma de Poncins si mostra più resistente delle sue stesse difese e, fra le asperità d’un viaggio in cui la natura svela i suoi lati più sfidanti, nella durezza dei paesaggi e nella drasticità delle condizioni in cui procurarsi del cibo o dormire, s’impunta per adottare il punto di vista di un vero indigeno. Risiede qui la magia del viaggio e del resoconto che l’autore ne fa, mentre lo compie. Nell’umanità con cui de Poncins punta all’obiettivo più grosso: lui non intende documentare la vita degli eschimesi. Desidera sentirsi altro da sé. O al limite, trovare il vero sé stesso tramite la lontananza. Più che misurare la vita degli eschimesi con piglio scientifico, quest’uomo ostinato e poetico – capace di suscitare da subito un naturale allineamento verso la sua avventura – sogna di vivere la vita degli eschimesi per prendere fiato dalla propria.
Il tutto, dunque, parte dall’irrequietezza. La terribile impressione che ogni cosa attorno a te sia sbagliata o incompiuta, che ci sia qualcosa di manchevole nel modo in cui hai organizzato la tua esistenza. Da qui, lo smarrimento. E un mondo che si rende ogni giorno più asfittico. Da qui, il desiderio di superare la frustrazione attraverso l’allontanarsi, il viaggio, e un rovesciamento dei punti di vista. L’autore lo dichiara con chiarezza fin dalle prime pagine, e un po’ sembra perfino pentirsi: “Non è un bello spettacolo; sei sempre più convinto che gli amici dicano sciocchezze, che vivano un’esistenza priva di senso […]”. A chi non è capitato di sentirsi immerso nella ripetizione dell’identico, o peggio, nella mediocrità dello standard, e pensare: devo andarmene da qui. Qualcosa, in de Poncins, sei è messo in moto. Di già. A Parigi, nel suo sé europeo e civilizzato, la fuga ha già avuto inizio.
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