Nulla è stato ancora scritto e i prossimi giorni si annunciano politicamente in divenire. Ma una cosa è certa, non solo perché oramai persino i media più faziosi hanno dovuto ammetterlo – ma soprattutto perché è palpabile – il vento sta cambiando. E per la prima volta Donald Trump è in vantaggio.
Certo, dei sondaggi fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. Il 2016 da questo punto di vista è lo spauracchio di ogni analista e commentatore, tanto che la cautela è l’elemento che contraddistingue l’analisi fino ad ora di questa campagna elettorale. Ci sono però degli elementi che hanno anticipato i sondaggi che per la prima volta hanno, pur con il consueto preambolo del “testa a testa”, annunciato urbi et orbi che The Donald è passato in vantaggio. Un vantaggio minimo, ma sul voto nazionale – quello che non conta – è una novità assoluta.

Elezioni Usa, vantaggio minimo Trump ma Harris non ha sfondato

Kamala Harris a prescindere da come andrà a finire non ha sfondato, non ha conquistato i cuori degli americani, e ancor di più subisce erosioni in quella che doveva essere la sua base elettorale, data troppo frettolosamente per scontata. Questo spostamento verso destra e i vari endorsement che Donald Trump sta ricevendo negli ultimi giorni sembrano essere una certificazione ulteriore che le rivelazioni hanno seppur marginalmente fotografato una realtà in atto. Ultimo colpo dell’ex Tycoon, duro da digerire per i democratici è stato l’appoggio incassato pubblicamente dalla comunità islamica del Michigan, uno degli “Swing state”.

Kamala concentrata su popstar e divi, Trump ha allargato base

È presto per esprimere giudizi, ma alcuni elementi riflessivi che potranno poi essere ampiamente sviscerati dopo il voto possono essere già evidenziati, e in questo caso vanno totalmente in favore dei repubblicani. La campagna democratica è apparsa concentrata soprattutto ad ottenere l’appoggio di popstar e divi di Hollywood, quella di Trump non ha sottovalutato nulla, si è mossa per allargare la base del proprio elettorato facendo acquisizioni importanti in campo dem. Non è una novità, e basterebbe guardare gli uomini che circondano l’ex Presidente per cogliere una connessione storica con tante elezioni del passato, ma soprattutto con le due campagne per le presidenziali di Ronald Reagan.
La campagna di Reagan oltre a concentrarsi su quell’elettorato generalmente ostile ai repubblicani, individuando gli elementi narrativi che potevano essere utilizzati per scippare una parte di quei “gruppi sociali” associati generalmente ai democratici. Allora furono i Cattolici, oggi sono gli arabi; nel 1984 erano “i democratici per Reagan”, oggi sono gli elettori di Robert Kennedy jr.

Trump ha raccolto delusi, arrabbiati e censurati

Colui che lasciando i democratici decise di essere il terzo incomodo, e che poi alla fine si è schierato apertamente con Trump, spendendosi senza sosta nella campagna elettorale sui temi a lui più cari – e forse non solo a lui – in un’America che troppo spesso viene fotografata con le lenti parziali della stampa liberal. Kennedy ha portato con se gran parte di delusi dai democratici, e le sue parole “non ho lasciato io il partito democratico, ma il partito democratico ha lasciato me” pronunciate al Madison Square Garden, dove il 19 maggio 1962 Marilyn Monroe cantava al Presidente John Fitzgerald Kennedy “Happy Birthday Mr. President”, in quella New York di cui fu Senatore Robert “Bobby” Kennedy dal 1965 al 1968. Quella di Kennedy – personaggio eclettico senza dubbio, è un’immagine forte, dalla valenza più che simbolica. Cosi come la testimonianza di Tulsi Gabbard ex deputata delle Hawaii, ex combattente, che ha lascito i Democratici, irriconoscibili per lei, e dopo anni da indipendente ha deciso di entrare nel partito repubblicano e di farsi come Kennedy gli Stati Uniti in lungo e largo per Trump e per strappare la Casa Bianca ai suoi ex amici di partito.

Sono saltati gli schemi, perché a cambiare è stato il paradigma dell’America, dell’idea stessa che gli americani hanno di loro stessi. La campagna di Trump per ora ha saputo capire questo mutamento e raccogliere tutti i delusi, gli arrabbiati, gli emarginati e i censurati dai democratici. Se questo basterà a Donald Trump lo capiremo solo la notte del 5 novembre, ma a fare notizia è la decisione del The Washington Post, quotidiano liberal per antonomasia, di non fare l’endorsement a Kamala Harris, è la prima volta da 36 anni, scelta di Bezos? Forse, ma di certo qualcosa è realmente cambiata.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.