Una promessa come tante?
Kamala Harris e la rivoluzione per riprendersi l’American Dream: non basta lo slogan “forward”, serve una direzione
Il volto della candidata dem, sorridente ed energico, surclassa quello anziano e corrucciato di Donald. L’America è sull’orlo del baratro, è lei la prescelta in grado di riportarla agli antichi splendori? Ne ha voglia, questo è certo.
“C’è un settantottenne milionario che non ha mai cessato di lamentarsi dei suoi personali problemi, usa espressioni infantili come la ‘teoria della cospirazione’ e ha una maniacale ossessione per le folle sui due lati della strada. E seguita, seguita a piangere e lamentarsi e che starà sempre peggio perché – assicura Obama – la Harris lo sconfiggerà”. In questo modo retorico l’ex presidente Obama indica il male americano: la grande divisione che minaccia l’esistenza stessa della Nazione. Ed ecco lei, Kamala, in completo beige e camicia bianca, che per prima cosa risponde allo slogan di Trump che la accusa di arretramento, scandendo il senso della sua sfida: “Non stiamo andando indietro: stiamo appena arrivando”.
Due le correnti di opinione: quella secondo cui Kamala cambierà davvero la politica democratica e quella gattopardesca secondo cui lascerà che il vecchio apparato resti così com’è. La grande questione americana è: riforme che cambino il modo di governare o accettare che la guerra civile avanzi? Non si tratta di dividersi fra democratici e repubblicani, ricchi e poveri, bianchi e neri, ma di decidere se questa America debba cambiare solo passo, o cambiare tutto. Tutto che? Anche Trump grida di voler cambiare tutto, ma Kamala si è presentata a Chicago con un’idea riformista forte, tale da poter riassorbire i conati rivoluzionari, presentandosi lei stessa come rivoluzione. Non è una novità, perché Obama entrò alla Casa Bianca promettendo un cambiamento di cui si è visto poco e nulla; prima di lui Bill Clinton parlò di una nazione che sta cambiando tanto da non essere più sé stessa.
Trump ha promesso di rendere finalmente l’America di nuovo grande, ma non si sa bene come. Quindi il discorso di Kamala rientra nella tradizione di promettere novità grandiose prima di poter riempire le parole con i contenuti. I giornali intervistano tutti gli assistenti, consiglieri, testimoni ed ex collaboratori nei due campi presidenziali per azzardare pronostici in cui prevale il fattore “prima donna alla Casa Bianca”, così carica di energie tenute sotto naftalina: ne ha la voglia e porterà sorprese. La parola chiave del suo discorso è “forward”, avanti, che deriva dal tedesco “Forward”, che fu il nome della testata dei socialisti tedeschi copiata dagli italiani con il giornale “Avanti!”. Una parola, ma anche una bandiera progressista. Ma “forward” verso cosa e con quali spese e piani politici?
Il fattore rappresentato dall’incombere di Trump è sufficiente per mettere alle corde i discorsi generalisti. Kamala deve dire qualcosa di molto impegnativo, o perderà la partita con il miliardario che si lamenta sempre. Trump sta perdendo punti a favore della Harris, il che può essere occasionale o irrilevante, o anche vero e irreversibile. Trump risponde a colpi di retorica: “Non terrorizzatevi nel pensare ciò che Kamala Harris potrebbe essere in futuro, perché l’incubo già terrorizza le vostre notti.” Il più sottile dei consiglieri di Trump ha un cognome italiano, Chris LaCivita: crede che Kamala non riesca a parlare al cuore dell’America pronta alla rivoluzione perché non ha forza delle idee, né il tempo sedurre gli americani che non sono repubblicani, democratici e neanche indipendenti. Ma che vogliono una rivoluzione. L’America è in preda a una crisi, ma ciò che realmente ci si chiede a Chicago è se la sola politica politicante possa convincerli ad aspettare un attimo.
Cedric Richmond, un tecnico sostenitore di Kamala giura che sia proprio lei “the one”, la messia femmina, leader capace di salvare capra e cavoli, istituzioni che scricchiolano fin dalla Corte Suprema, e poi la società variamente civile che dà segni di sfaldamento lasciando presentire una nuova “American civil war”. Perché la guerra civile ce l’hanno nel sangue, gli americani, e con tutte quelle armi e quegli odi frontali, sui due marciapiedi della stessa strada, basta un’estate calda a scatenare l’inferno. Probabilmente in Italia non abbiamo una vera idea della lava e delle vendette incrociate che attraversano la società americana. Salvo – ma solo in parte – che nelle grandi metropoli. Ma il resto? Le orde barbariche bianche, povere e senza scuole? Trump e Vance si fanno forti della rivolta degli ignoranti bianchi, surclassati dalle smaglianti lotte civili grazie alle quali ogni bambina o bambino, appena uscito dalle elementari, cerca la sua nicchia di perseguitato che pretende riparazione per conto dei suoi avi, e vaffanculo a Cristoforo Colombo e a tutti gli europei imperialisti, ladri di terra e di lingue.
Siamo appena usciti da una stagione di abbattimenti delle statue di diversi passati: la Guerra Civile, l’integrazione, giù dal piedistallo anche grandi leader neri come Malcolm X. La rivoluzione americana, come quella francese, divora tutti e tutto. E teme con angoscia il suo 18 Brumaio, il giorno del colpo di Stato napoleonico. Kamala è stata procuratrice distrettuale a San Francisco, ha fama di dura, manettara ed è stata molto odiata proprio da tutto il mondo brownish, marronastro e non bianco: per trasformarsi in Wonder Woman “to make the world a better place”, fare del mondo un luogo migliore – che poi era anche lo slogan di Cesare Ottaviano Augusto.
A occhio e croce, sono pochi in Italia e in Europa coloro che hanno una pallida idea della realtà americana e delle sue viscere profonde. A partire dal mondo dei veterani mutilati di tutte le guerre, fino agli immigrati che non sanno una parola d’inglese, accampati nei parchi di New York e sui marciapiedi. Nella partita che si sta giocando a Chicago, al di là dei ben confezionati discorsi e la geniale regia, è arrivata col primo discorso di Kamala Harris la sensazione per tutti che la candidata, fra mille sorrisi, sappia benissimo che la società è sul bordo del baratro – condizione da cui attinge consenso il suo nemico Trump. Senza aver avuto ancora la spavalderia di sporgersi per illuminare il demonio e pronunciare le formule reali per ricacciarlo e tentare, almeno tentare, di far ritornare alla luce il paradiso perduto dell’American Dream.
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