Finalmente le due dinastie della politica americana, quella dei Clinton e quella degli Obama, hanno sciolto la riserva e hanno concesso fra molti sospiri la grazia dell’endorsement: la certificazione e il gradimento per la parvenu Kamala Harris. Per chi ha meno confidenza con la lingua inglese, ricordo che l’endorsement è la firma che certifica l’autenticità dell’assegno. Bill Clinton è il capostipite della dinastia. L’audace figlio di una sciampista della sperduta Little Rock, capitale del poverissimo Arkansas, che portava a traino una fidanzata innamorata e secchiona: la giovane Hillary, che dedicò la sua vita alla carriera del marito con qualche incidente di percorso (come quello di trovare l’allora giovanissima stagista Monica Lewinsky trafficare sotto il tavolo con la zip dei pantaloni di Bill, che negò tutto davanti alla moglie e agli Stati Uniti, per cui fu colpito dall’accusa di spergiuro). Bombardò la città europea di Belgrado con gioioso sostegno italiano, ma questa è un’altra storia.

I Clinton diventarono due quando Hillary chiese di essere promossa segretaria di Stato, cioè ministro degli Esteri, ma dovette aspettare e poi tentò di conquistare la Casa Bianca contro il divo nascente Barack Obama, sex symbol coltissimo ed eccellente scrittore, primo nero alla Casa Bianca (anche se il suo nero non viene dagli schiavi ma da un padre alto funzionario kenyota). Obama portò una moglie, Michelle, considerata la più affascinante First Lady alla Casa Banca e di fatto regina degli Stati Uniti. Poi, l’inizio della fine del circolo dinastico. Obama scelse come suo vice un allenato trafficone parlamentare come Joe Biden che – quando vinse contro Trump – si portò dietro la sconosciuta procuratrice mezza indiana e mezza giamaicana Kamala Harris, molto detestata dai giovani e ora di colpo loro idolo. Quando il povero Joe – da sempre sfottuto da Trump come “sleepy Joe”, il dorminpiedi – è stato costretto due giorni fa ad abbandonare la corsa mentre era malato di Covid, ha “endorsato” la sua vice Kamala come se la successione fosse cosa sua. Questo ha mandato in bestia Barack Obama, che ha tentennato quasi una settimana prima di concedere il suo prezioso “sì” insieme alla coppia Bill e Hillary: lui non voleva un’incoronazione ma un vero congresso a Chicago.

Adesso non si sa se il congresso dovrà solo ratificare la candidatura di Kamala oppure se si aprirà ad altre ipotesi. Ma, avendo lei ereditato la borsa dei fondi di Biden, è una sposa ricca con grande dote e ad oggi i giochi sembrano fatti. Ed è così che il mondo (non solo americano) che temeva l’avvento di Mr. Trump verso il potere, sembra preda di una reazione adorante per una donna che aveva vissuto nell’ombra, segnalandosi soltanto per l’invisibilità. Che cosa ha fatto, che ha detto? Nulla che qualcuno ricordi. È il bello della Storia, diversamente da quanto pensò il professor Francis Fukuyama: altro che fine della Storia, perché era e resta imprevedibile, tant’è vero che ora assistiamo a un evento miracoloso e inatteso almeno quanto la metamorfosi del Trump folgorato da una pallottola di striscio. Intendiamo riferirci al fatto che, dopo aver detto che Kamala sarebbe stata più facile da battere, ha poi affermato che dietro la sua candidatura e dietro le dimissioni di Biden ci dev’essere un complotto di Nancy Pelosi e di Barack Obama. Trump ovviamente è di volta in volta il buon dottor Jekyll e il cupo e tremendo mister Hyde, le cui due nature si rincorrono.

La verità è che la Harris sta avvalendosi di una delle lobby più potenti degli Stati Uniti: quella indiana. Proprio gli emigrati dall’India che in America sono milioni e costituiscono la vera anima asiatica. Li ho già raccontati avendo vissuto fra loro: sono per lo più medici laureti col massimo dei voti, il massimo delle borse di studio, schiavizzano i loro figli con restrizioni sessuali monacali e che fanno sposare chi dicono loro, sono all’avanguardia della tecnologia, odiano i milioni di americani cinesi e non fraternizzano con vietnamiti e sudcoreani. Non si deve mai dimenticare, parafrasando Oscar Wilde, che il popolo americano è un grande organismo diviso soltanto dalla lingua comune. Quando il presidente indiano Modi compì la sua ultima visita a Washington, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato per lui organizzarono un’accoglienza talmente fastosa da stupirlo, talmente costosa da intorpidirlo e lusingarlo. Ma Modi commentò privatamente: “È arrivato il momento in cui l’America ci rispetta perché giochiamo su due tavoli”. Infatti poche settimane fa Modi era a Mosca ospite di Putin, che ha organizzato per lui una coreografia da paradiso terrestre e gli ha parlato in inglese. Sì, Putin parla un discreto inglese che si rifiuta di usare ufficialmente. Ma nel video in cui accompagna Modi al corteo delle macchine e dei bodyguard riceveva i continui e quasi soffocanti abbracci da Modi, cercava di placarlo come un cagnolone troppo espansivo con una serie di “thank you, tank you mister president” nel SUV da cui quello evadeva con un nuovo abbraccio.

Quanto agli americani, c’è da dire che i rapporti storici tra Usa e India hanno sempre avuto una corsia preferenziale: il presidente Roosevelt chiarì col primo ministro inglese Churchill che l’America avrebbe fornito a Londra armi, cibo, rifornimenti ma solo a patto che – finita la guerra -l’Inghilterra lasciasse tutti i suoi domini a cominciare dall’India, e così fu. Kamala è figlia dell’India britannica così come Obama è figlio del Kenya britannico, di cui suo padre era un alto funzionario. Quando Biden scelse Kamala come sua running mate, compagna di corsa, nel 2020 fu acclamata, più che in India, dalla prosperosa comunità indiana d’America fatta oltre che di medici anche di grandi avvocati e politici. Il leader della diaspora indiana, Shoba Viswanathan, ha commentato la candidatura sostenendo che “non è solo una questione d’orgoglio: Kamala ci normalizza rispetto agli altri diventando una rappresentante indiana nelle istituzioni”. Cito questo elemento solo perché noi europei abbiamo in genere un’idea bislacca e posticcia degli americani, considerandoli tutti uguali o magari divisi solo in bianchi e afro. La scommessa politica di Trump, come sappiamo, è quella di puntare sulla classe bianca povera e non laureata come minoranza etnica che cresce meno di quello della comunità degli afroamericani. Tutti gli indiani d’America si sentono dunque in uno stato di promozione sociale (bisogna vedere come si concluderà il congresso di Chicago) perché una dei loro, già abitante della Casa Bianca, ha la possibilità di diventare presidente e la prima donna presidente. Per di più di colore, benché si tratti di un colore raccogliticcio, non una sola goccia di sangue di schiavo.

Biden intanto ha tenuto un mesto discorso d’addio dallo Studio Ovale e non sarà l’ultimo. Ma con sentimenti contrastanti, scoprendo anche lui ciò che nessuno immaginava: il brutto anatroccolo Kamala raccoglie quantità inaspettate di consensi puramente razziali e di nicchie sessuali ed è evidente che studia da cigno. La forbice dei polls mostra ancora Trump in testa, ma il miracolo della natura frazionata dell’elettorato americano fa sì che – pur non avendo ancora Kamala fatto o detto alcunché di notevole – la massa di coloro che vogliono fermare Trump si sta tuffando nel suo contenitore non perché la riconosca leader, ma un ottimo follower di tutte le fazioni spacchettate in sfumature del colore della pelle e generi sessuali. Quelli che il filosofo inglese Douglas Murray ha calcolato in più di duecento combinazioni possibili solo incrociando sessualità, etnia e politica. Fu proprio Kamala nella sua prima intervista da vicepresidente a presentarsi non come una democratica, ma come “una madre di figli neri…”, che peraltro non aveva. Il quartier generale LGBT+ sembra che l’abbia adottata senza esitazioni e senza far caso al passato di procuratore della Harris, detestata per decenni dalle minoranze e dai giovani neri che ha mandato in galera in nome di “law and order”.

Il suo momento ora è arrivato e deve solo far ordine nel passato e nel presente, considerato che Biden le lascia un gruzzolo di decine di milioni di dollari già pronti per essere spesi nella fase finale della campagna elettorale. A Kamala non manca niente, salvo un guardaroba adeguato, un pizzico di classe e il dono della parola su cui si allena, tendendo (come Biden) a balbettare e oscillando il capo. Le viene rinfacciata sui social la spietata definizione che dette di lei J.D. Vance, oggi candidato vice di Trump, ma allora ferocemente anti-trumpiano, quando disse che “women who haven’t given birth like Kamala Harris are childless cat laides who are miserable at their own lives”: le donne senza figli come Kamala Harris sono gattare tristi per sé e chi gli sta attorno.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.