Il 21 luglio scorso, Joe Biden passed the torch, si è ritirato dalla contesa presidenziale. La media dei sondaggi in quei giorni faceva segnare un vantaggio di Trump, su base nazionale, di 3,2 punti. Proprio quei dati sembrano aver convinto il presidente uscente a ritirarsi. Esattamente un mese dopo (il 21 agosto), Kamala Harris può godere di un vantaggio simile: 3,3%. Negli stati decisivi – i cosiddetti Swing States – le cose non cambiano. Con Biden ancora in campo, Trump era avanti in Pennsylvania (+4,4%), Michigan (+2,4%), Georgia (+5,9%), Arizona (+5,5%), North Carolina (+6,9%), Wisconsin (+2,3%) e Nevada (+5,8%), con una tendenza in crescita, specie in seguito all’attentato subìto e alla convention repubblicana del 15-18 luglio.

Il passaggio di consegne da Biden ad Harris ha cambiato completamente la scena e oggi, al di là del dato nazionale che conta fino a un certo punto, Harris risulta avanti in Pennsylvania (+1,5%), Michigan (+3,2%), Arizona (+1,1%), North Carolina (+0,3%), Wisconsin (+3,6%), Nevada (+0,3%); Trump è in testa solo in Georgia (+0,8%). Non si tratta di vantaggi cospicui e rassicuranti per i democratici, ma è evidentemente in corso un trend positivo, ulteriormente rafforzato dalla Convention di Chicago, in cui il partito dell’asinello ha schierato una specie di “Dream Team” – non solo politico, ma del public speaking – al fine di blindare il ticket Harris/Walz e spingere la loro candidatura con una potente e contagiosa folata di emozioni, centralità mediatica e dominio dell’agenda.

Mentre Trump e il suo team sembrano ancora alla ricerca della nuova strategia ora che lo scenario è completamente mutato, i democratici stanno soffiando con tutto il fiato a disposizione sul fuoco del “momentum” che sembra premiarli, non risparmiando niente e non lasciando nulla al caso. Michelle Obama ha “acceso” il pubblico di Chicago riutilizzando una parola d’ordine delle campagne di Barack: “Hope is making a comeback”. La speranza sta rimontando sulla paura, l’odio, la divisività del competitor repubblicano. Anche la call to action finale ha lasciato il segno, do something: facciamo tutti qualcosa per vincere. Barack, dopo aver posato in un lungo abbraccio con Michelle che ha riproposto la photo opportunity che per anni ha rappresentato il tweet politico col più alto numero di interazioni di sempre, ha lanciato uno “Yes, she can!” che ha inevitabilmente galvanizzato il Convention Center.

A Barack e a Bill Clinton è toccato elogiare e ringraziare più degli altri Joe Biden e condire con una navigata e sapiente ironia e autoironia i loro discorsi, che si sono rivelati in grado di toccare praticamente tutto lo spettro emotivo del pubblico di Chicago. E questo è ciò che conta maggiormente in un evento come le convention, un evento cioè il cui pubblico è l’equivalente di una curva da stadio, senza avversari e senza contraddittorio. L’obiettivo primario è quello di “accendere” i cuori e provare a generare un effetto domino anche sugli elettori indecisi, grazie alla copertura mediatica e alla visibilità garantita, in questo caso, da due ex presidenti, dal presidente uscente, da due first lady (politicamente e mediaticamente molto “pesanti”) e da una potentissima icona pop come Oprah Winfrey.

Evento riuscito, nulla da dire. Ma attenzione all’effetto bolla e al crogiolarsi narcisistico di questi giorni, che va ben oltre gli Stati Uniti e coinvolge, come sempre, le élite internazionali. Uno specchiarsi che fa perdere di vista quell’America “profonda” che ha bisogno di certezze e di rassicurazioni, non di grandi performance oratorie. Ora ci sono due incognite pesanti sul cammino di Kamala. La prima è legata alla durata del “momentum”: è chiaro che sulle tendenze recenti dell’opinione pubblica hanno inciso sia l’effetto novità della candidatura, sia la parata mediatica della convention che ha monopolizzato l’agenda pubblica. Dobbiamo attendere che i dati si “normalizzino” per capire la reale eredità e la portata di questa inversione di tendenza.

La seconda è il confronto TV del 10 settembre. Sarà quella la prima occasione in cui Harris uscirà da questa bolla confortevole e rassicurante di entusiasmo e di sostegno e si confronterà con un Trump che, nel mentre, avrà fissato i punti chiave della sua nuova strategia. È probabile che, da domani, le war room di Harris e Trump si concentreranno su due attività: individuazione degli elettori “mobili” negli stati decisivi, analisi dei bisogni e delle motivazioni per convincerli ad andare a votare; simulazioni del confronto TV, perfezionando comunicazione verbale e non verbale fino al minimo dettaglio. Ogni parola, ogni gesto, ogni smorfia sarà guidata dai target, qualche migliaio di elettori “scongelati”, in un’America iper polarizzata, che può cambiare l’esito di queste elezioni.

Luigi Di Gregorio

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