Esteri
Kennedy fu l’uomo della speranza, con lui a Dallas morì il Mito che è il motore della Storia
Nel Sì e No del giorno del Riformista spazio al dibattito sulla figura di John Fitzgerald Kennedy. Fu vera gloria? Favorevole il giornalista Mario Lavia, contrario Paolo Guzzanti, firma del Riformista.
Di seguito il commento di Mario Lavia
All’inizio del 2020 Bob Dylan annunciò l’uscita di questa sua canzone, “Murder Most Foul,”, dedicata all’uccisione del presidente John Fitzgerald Kennedy a Dallas il 22 novembre 1963. “Murder most foul”, cioè “il delitto più ripugnante”, è una citazione dall’Amleto di Shakespeare (Atto I, Scena 5, quando lo Spettro del padre descrive la sua morte ad Amleto) e tutta la canzone, come è nello stile di Dylan, contiene moltissime citazioni da canzoni e film, riferimenti letterari e storici relativi all’assassinio di Kennedy come il riferimento alla “grassy knoll”, la “collinetta erbosa” della Dealey Plaza di Dallas dove si nascondeva un tiratore scelto. Come tutta l’America di quell’inverno di sessant’anni fa Dylan era sconvolto per l’omicidio del presidente americano. Scrisse anche qualche poesia, i “Kennedy poems”. Era naturale che fosse così.
Un tarlo che evidentemente non è mai scomparso, se mezzo secolo dopo Bob ha sentito di comporre quella canzone sul “delitto più efferato”. Eppure ce ne sono stati altri, di crimini orrendi. E presidenti più grandi di JFK. Non parliamo solo di Franklin Delano Roosevelt, recentemente si è molto rivalutata la figura del suo successore, Harry Truman e anche di Lyndon Johnson. Perché allora quello di John Fitzgerald Kennedy è “il delitto più ripugnante”? Il mondo se lo chiede da allora è si dà più o meno questa risposta: abbattendo Kennedy con un fucile di precisione facendo schizzare il suo cervello sul vestito di Jacqueline si è dato un colpo alla Storia, a quello che sarebbe potuto essere e non è stato, questa è tuttora la percezione del mondo sugli spari di Dallas. Venne cioè ucciso il Mito del kennedysmo che, fuori dalla pietà umana, è un crimine di proporzioni incalcolabili. Perché il Mito spesso è il motore della Storia. Lee Oswald ha incenerito il Mito che poteva diventare realtà.
Cosa sarebbe diventata l’America se John Kennedy fosse andato avanti ben oltre i nemmeno tre anni di presidenza, come sarebbero mutate le condizioni di vita degli americani, in che modo si sarebbero stabilizzate le relazioni internazionali lungo quella “strategia di pace”, peraltro solo abbozzata, che egli aveva in mente? Le premesse di un nuovo corso liberaldemocratico c’erano tutte. A guidare gli Stati Uniti con lui c’erano dei quarantenni non imbrigliati nei drammi psicologici della Depressione e della Seconda guerra mondiale e perciò liberi di guardare il mondo con altri occhi: il kennedysmo era la koinè del futuro e non per i politologi ma per una sensazione planetaria quale mai vi era stata prima che sentivano parole come spazio cosmico, diritti, pace, eguaglianza: un nuovo vocabolario di massa. Non potevano bastare tre anni, quello era il programma di un doppio mandato. Non c’è una “legge Kennedy”. Ma c’era il pensiero che avrebbe potuto far nascere molte “leggi Kennedy”. Questo chiedeva Martin Luther King nel famoso “discorso del sogno” (c’era anche Dylan quel giorno davanti alla Casa Bianca), cioè che il pensiero diventasse Storia, e JFK sembrava mandato sulla Terra per questo.
Tutti, amici e avversari, ne erano convinti, per questo quei quasi tre anni bastarono a infondere agli americani un nuovo coraggio in asse con le grandi coordinate ideali di quel Paese, la libertà, l’intraprendenza, i diritti sociali — e non siamo certo noi qui i primi ad istituire un nesso forte tra Roosevelt e Kennedy o addirittura tra Kennedy e i grandi costruttori degli States, da Jefferson a Madison. La pace kennedyana era anche una sfida al comunismo, con tutte le incognite del caso che forse egli non valutò appieno rischiando la crisi nucleare nella vicenda della Baia dei Porci, e però capì che la sfida andava accettata. “Io sono berlinese” significava quella sfida al comunismo. Sarebbe stato giusto che a vincerla, quella sfida, fosse stato lui, ma lo uccisero molto prima. Solo tre anni ma le generazioni successive portano dentro il senso di quel Mito democratico: «La visione di Kennedy per gli Stati Uniti e per il mondo vive ancora oggi nelle generazioni che ha ispirato», ha detto infatti Barack Obama, l’uomo che nelle ore della sua vittoria fece venire la pelle d’oca ai kennediani superstiti perché incarnava anch’egli la stessa speranza di riscatto. John Fitzgerald Kennedy è stato l’uomo della speranza che va valutato per la voglia di libertà che ha incarnato, più come un Messia della politica che come uno statista. «Il giorno in cui l’hanno ucciso, qualcuno mi ha detto: “Figlio, l’epoca dell’Anticristo è appena iniziata”», canta ancora Bob Dylan nella sua dolente ballata sul “delitto più ripugnante” che ancora commuove.
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