Come spiegare a chi non ha vissuto gli anni ’70 e ’80 chi era Henry Kissinger, morto ieri dopo aver compiuto un secolo di vita? Perché ieri tutti i giornali cinesi e in particolare quelli comunisti grondano lacrime dando la notizia della sua morte? Henry Kissinger era nato in Germania da una famiglia ebrea e il suo inglese non è mai stato perfetto. Ma la sua vita è stata quella di patriota americano, ma indossando sempre una gestualità e mentalità europee. Ma la sua carriera politica, oltre quella accademica, cominciò quando il repubblicano Richard Nixon (che aveva perso il primo duello televisivo della storia con John Kennedy) lo scelse come segretario di Stato, o ministro degli esteri. Gli Stati Uniti erano impantanati nella feroce guerra del Vietnam per una sottovalutazione di John Kennedy che pensava di sostituire nel Sudest asiatico il vuoto lasciato dai francesi, sconfitti in campo aperto dall’esercito nordvietnamita di Ho-Chi Minh e del generale Giap.

Il successore di Kennedy, Lindon Johnson aveva trasformato quella guerra in un inferno da cui non si poteva più uscire. Quando il repubblicano Nixon (poi costretto a dimettersi per lo scandalo Watergate) entrò alla Casa Bianca, provò a vincere la guerra ma fu un nuovo disastro. E Kissinger, che non era un santo, autorizzò segretamente terrificanti bombardamenti a tappeto sulla Cambogia. Più tardi, quando la pace fu firmata a Parigi, Kissinger ricevette nel 1973 il Premio Nobel per la pace, ma nella sua organizzazione mentale la pace era una necessità realistica e non morale. Fu anche accusato di aver prolungato il tempo di quella guerra e non di averlo abbreviato. E forse è vero perché il cauto Henry ha sempre voluto sperimentare ogni ipotesi per valutare le conseguenze. In questa abilità è stato forse all’altezza di Talleyrand, ministro degli esteri del re Luigi XVI, poi decapitato, del governo rivoluzionario, poi di Napoleone e anche della restaurazione. Di se stesso scrisse ciò che ha con minor enfasi sussurrato. “Per molto tempo si discuterà di quel che ho fatto, pensato e voluto”. Il punto in comune è la permanenza nella stanza delle decisioni strategiche con ogni Presidente, democratico o repubblicano, con il ruolo di suggeritore (e spesso decisore) di tutti i Presidenti compresi Donald Trump e Joe Biden. È morto amato da pochissimi e circondato da una stima priva di affetto, come un grande giocatore di scacchi nella guerra con il Vietnam cui volle mettere fine, ma non prima di aver constato l’inutilità delle armi più distruttive come il napalm. Riuscì a tirar fuori l’America da quel disastro “ma assicurandoci un tempo decente tra l’armistizio e l’inevitabile rotta finale”.

L’infernale trattativa con l’Oriente lo rese astuto e impeccabile sia nei rapporti diplomatici con i vietnamiti sia con i cinesi con cui entrò in contatto per necessità e un interesse sia pratico che filosofico con la misteriosissima e totalmente chiusa al resto del mondo Cina di Mao Zedong. Una Cina con cui l’America si era già sanguinosamente scontrata nei tre cupi anni della guerra di Corea finita con un fragile armistizio mai diventato pace sul trentottesimo parallelo, perché Mao aveva speso in battaglia quasi due milioni di soldati. La Cina era quanto di più misterioso esistesse perché nessuno era autorizzato ad entrarvi o uscirne. Si sviluppò così la categoria misterica, quasi una casta dei sinologi, veggenti capaci di interpretare i segni dell’impero più oscuri e che benché comunista era entrato subito in conflitto con la Russia sovietica per dispute sia ideologiche che territoriali. L’URSS era il vero nemico che minacciava l’Europa e l’America e Kissinger concepì un piano segreto, spavaldo e non soltanto vincente per quei tempi, ma rievocato con nostalgia oggi dalla Cina di Xi-Jinping come un paradiso perfetto in cui Usa e Cina vivono delle reciproche offerte e richieste, senza minacce di guerra.

Questo è il motivo per cui a luglio Kissinger fu invitato a Pechino dove gli fu riservata un’accoglienza di venerazione e nostalgia che fece andare in bestia l’attuale segretario di Stato Antony Blinken perché vedeva il suo antico predecessore ricevere il trattamento che si dovrebbe a una grande nazione, mentre la Cina faceva del centenario Kissinger il padre fondatore di un mondo rimpianto. Il suo colpo di genio fu quello di capire che la Cina ha fame di America, e non di Russia, e che lo stesso fondatore Mao Zedong trovava più proficuo un rapporto duro e puro con il mondo occidentale che con l’Unione Sovietica, benché entrambe le potenze comuniste sostenevano insieme il Vietnam contro l’esercito americano ma in brutale competizione lungo l’incerta frontiera del fiume Ussuri dove cinesi e russi si sparavano ogni giorno. Kissinger scelse la Cina e la sua tessitura andò a buon fine. Ma oggi che Kissinger è morto, questo pragmatico emigrato con accento tedesco seguita a trasmettere messaggi attraverso la stampa cinese che celebra la sua morte come quella di un leader amato perché oggi la Cina ha di nuovo scelto di cercare la linea comune con gli Stati Uniti come il felice incontro di Xi Jinping e Joe Biden a San Francisco hanno ampiamente dimostrato.

Resta, oggi come allora, l’ostacolo di Taiwan, Ma con Kissinger, i cinesi Mao e il ministro degli esteri Chu Enlai trovarono una formula ipocrita quanto basta per tirare avanti senza farsi troppo male. Questa è la ragione per cui oggi, mentre scriviamo, a Taiwan, non si celebra affatto la morte di un amico ma del cinico opportunista che non esitò a mollare i nazionalisti cinesi filoamericani, per andare a letto col nemico. Kissinger partecipò e diresse poi dal fronte occidentale il collasso progressivo dell’Unione Sovietica, cosa che a Mosca aveva capito soltanto Yuri Andropov, capo del KGB e poi Segretario generale del Pcus per poco, ma quanto bastava per indicare in Michael Gorbaciov l’uomo addestrato e pronto per trattare con Washington e Londra la fine controllata dell’impero sovietico, mentre a Pechino si brindava e il giovane colonnello Putin giurava vendetta.

Avatar photo

Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.