Chissà che cosa avrà spinto La Repubblica di ieri a sparare in prima pagina, con tanto di foto, un articolo contro Silvio Berlusconi copiato da quel che aveva scritto Il Fatto un anno fa, il 14 luglio 2022. Oltre a tutto senza dare la parola, come si fa nei processi, anche quelli di popolo con corde insaponate e forche, all’accusato. Cosa che invece aveva fatto correttamente il quotidiano di Marco Travaglio.

Non paghi di avergli dato del puttaniere e del terrorista autore di stragi, gli uomini del gruppo Gedi (esecutore materiale dell’articolo Lirio Abate) questa volta si inerpicano in settori finanziari, senza ombra di competenza né sapere, per verificare come, dove e perché l’imprenditore Silvio Berlusconi abbia trovato i primi capitali su cui poi costruire un impero economico. Capacità, genialità dell’uomo? Macché. Mafia, mafia e solo mafia. Il che fa anche un po’ sorridere, dal momento che gli stessi giornalisti, quelli del Fatto e quelli di Repubblica che insinuano che uno dei maggiori imprenditori italiani sia diventato tale solo perché foraggiato da Cosa Nostra, sono poi gli stessi a scrivere vorticosamente e con puntiglio che Berlusconi i soldi in realtà li abbia versati a Totò Riina, e ripetutamente per anni. Insomma, con una mano li prendeva e con l’altra li dava?

La fonte di questa vecchia notizia è la Procura di Firenze, non sappiamo se nella persona di qualche pm o di appartenente alla polizia giudiziaria o altro. Certo è che quegli uffici hanno bisogno con urgenza di un nuovo capo, dopo le disavventure legal-sessuali che hanno costretto all’abbandono l’ex procuratore Giuseppe Creazzo. E forse, visto il sistema persecutorio con cui vengono presi di mira sia Matteo Renzi e i suoi cari che lo stesso Berlusconi (con annesso Dell’Utri), una bella ispezione ministeriale del guardasigilli Carlo Nordio sarebbe una ventata di aria fresca. Ce ne è proprio bisogno. Per quale motivo i procuratori Luca Tescaroli e Luca Turco, ormai orbi del loro capo Creazzo, mentre indagano sul reato di strage per le bombe di Firenze Milano e Roma del 1993, sentano la necessità di verificare come si sia formato negli anni Settanta il capitale iniziale dell’imprenditore Berlusconi, tanto da disporre una perizia, è del tutto incomprensibile.

È vero che li avevano già preceduti i colleghi di Palermo, di cui i fiorentini paiono maldestri imitatori, nel corso del processo che ha condannato Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. È tutto raccontato sul Fatto del 14 luglio 2022, quello copiato da Abate e da Repubblica. Copiamo anche noi, allora, ma dichiarandolo. Apprendiamo dunque che la Procura di Palermo aveva nominato quale consulente il funzionario della Banca d’Italia Francesco Giuffrida. Cui aveva posto il quesito su chi avesse provveduto alla provvista, per i finanziamenti dei soci confluiti nel 1977 nelle casse di Fininvest spa. La risposta, anche di Niccolò Ghedini, sentito dal Fatto, era stata: “Silvio Berlusconi” in persona.

Era stata molto chiara la richiesta di archiviazione di Palermo del 2004, che riportava la resa dei pm, costretti ad ammettere di non aver trovato “riscontri a ipotesi di riciclaggio o all’ingresso di capitali esterni in Fininvest”. Ma “la pietra tombale”, leggiamo sempre dalla prosa del Fatto, viene posta dalle conclusioni del consulente della Procura, Francesco Giuffrida, scritta nel 2007 e ripresa da Marina Berlusconi in una lettera a Repubblica. In cui si riporta che il consulente «riconosce i limiti delle conclusioni rassegnate nel proprio elaborato e delle dichiarazioni rese a dibattimento, e inoltre che le operazioni oggetto del suo elaborato erano tutte ricostruibili e tali da escludere l’apporto di capitali di provenienza esterna al gruppo Fininvest». Contorto, ma esplicito, il consulente di Banca d’Italia.

Rassegnati i pm “antimafiapalermitani, anche dopo la batosta della sentenza sul “processo Trattativa”, sono partiti all’attacco i fiorentini. E, mentre si attende che il nuovo Csm nomini il nuovo procuratore, e magari anche che il ministro Nordio mandi gli ispettori, hanno disposto la loro brava perizia. Siamo all’11 maggio 2022, e ancora, mentre si dovrebbe indagare per individuare i responsabili delle bombe, si fa l’analisi del sangue a una singola persona e a ogni sua attività. Cercano le “opacità”, e su questo teorema ormai frusto imbastiscono notizie da prima pagina. L’ispiratore di questa nuova pagina, su cui sono già intervenute ben quattro archiviazioni, è un boss mafioso e stragista del Brancaccio di Palermo di nome Giuseppe Graviano, accusato (ingiustamente in questo caso) e già condannato in primo grado a Reggio Calabria come mandante dell’omicidio di due carabinieri, uccisi il 18 gennaio del 1994 da due piccoli malavitosi locali.

È il processo “’ndrangheta stragista”, cioè il “Trattativa due” utile a prolungare la stagione delle stragi fino alla nascita di Forza Italia e la vittoria elettorale di Berlusconi del 28 marzo di quell’anno. Per dimostrare che quel risultato fu la vittoria della mafia, non degli elettori italiani. Così tutto fa brodo, la ricerca dell’ “opacità” nei bilanci Fininvest, le chiacchiere a vanvera dei “pentiti”. Come quella di Gaspare Spatuzza, che vagheggia di un incontro al bar Doney di via Veneto a Roma tra Marcello Dell’Utri e Giuseppe Graviano tra il 18 e il 21 gennaio 1994. Per parlare di bombe e stragi, ovviamente. Incontro smentito dai due e mai provato. Ma intanto se ne parla.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.