Strage di Alcamo
La battaglia di Giuseppe Gulotta, torturato da uomini in divisa e 22 anni in carcere da innocente
Il caso della strage di Alcamo Marina, nella quale il 27 gennaio 1976 furono uccisi i due carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, è approdato martedì scorso per la prima volta, a distanza di quarantaquattro anni, sul tavolo della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra. Un fatto storico che riaccende i riflettori su una pagina ancora buia della storia italiana, gravida di buchi neri e soprattutto rimasta senza colpevoli. A Palazzo San Macuto è stato ascoltato – insieme al giornalista Nicola Biondo che ha raccontato in un libro la sua storia – Giuseppe Gulotta, considerato dai giudici di due corti, uno degli autori della strage. Ma i processi che lo hanno condannato insieme a Giovanni Mandalà, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, erano viziati – come ha stabilito trentotto anni dopo una sentenza di Cassazione – da prove false e abusi di ogni genere. Una frode processuale che ha consegnato all’opinione pubblica una verità preconfezionata, scritta a tavolino, in un truce inganno di sangue, ancora tutto da chiarire, capace di stritolare la vita di quattro ragazzi alcamesi finiti all’ergastolo poco più che maggiorenni. Mandalà morì di morte naturale nel 1998, Santangelo e Ferrantelli si rifugiarono in Brasile.
A pagare il prezzo più alto è stato Gulotta, 61 anni. Ne ha trascorsi più della metà nelle aule dei palazzi di giustizia e ben ventidue dietro le sbarre, da innocente. «Mi venne offerto, all’epoca, di fuggire con un nuovo passaporto ma decisi di restare per non dare la sensazione di essere colpevole». La sua confessione è stata estorta in caserma «dopo una notte – prosegue Gulotta in Antimafia – di sevizie e torture». Le stesse che subì il suo accusatore, Giuseppe Vesco, un ragazzo considerato vicino agli anarchici, arrestato un mese dopo l’eccidio, dai carabinieri guidati dal colonnello Giuseppe Russo, che poi sarà ucciso dai corleonesi il 10 agosto 1977. «Russo la notte delle torture che ho subito era lì, in divisa», racconta Gulotta. «In molti contestano questa cosa perché si dice che il colonnello non portasse quasi mai l’uniforme, ma io riconosco Russo molti anni dopo su una foto apparsami su internet. Dopo quella notte non lo vidi mai più».
Le manette a Vesco costituiscono il primo atto del depistaggio. Otto mesi dopo l’arresto, Vesco cerca di scagionare i nomi urlati sotto tortura ma verrà trovato impiccato nella cella di detenzione nonostante avesse una mano sola, l’altra l’aveva persa anni prima in un incidente. Morti Vesco e Russo, Gulotta sembra arrendersi all’ingiusta condanna, ma nel 2009 – tre anni dopo la cattura dell’ultimo boss corleonese Bernardo Provenzano – Renato Olino, un ufficiale dei carabinieri testimone di quelle torture, rompe il silenzio e racconta la verità. Per Gulotta è la fine di un incubo. «Ho sempre avuto fiducia nelle istituzioni, ho continuato ad averla nonostante tutto. Purtroppo oggi non c’è ancora verità per i familiari dei due carabinieri uccisi. Ho ottenuto la mia giustizia ma siamo di fronte a una verità a metà. Sarei felice se questo caso si potesse riaprire», ha detto Gulotta rivolgendosi ai membri dell’organo parlamentare.
Seduto al suo fianco, il giornalista Nicola Biondo ha fornito alcuni spunti per provare a dare una risposta a quelle domande che restano ancora aperte: «Dovete chiedervi perché e chi ripete il metodo Alkamar (così veniva chiamata la piccola caserma, ndr) e fino a dove arriva. Ci sono tre casi in Sicilia in cui investigatori eccellenti, come lo erano Giuseppe Russo o Arnaldo La Barbera, usano la tortura, da cui nasce solo la menzogna per coprire la verità. Bisogna ripartire dalla scena del delitto. La procura di Trapani ha aperto un nuovo fascicolo per strage, fatevi ritrovare dalla procura le foto dell’assalto alla casermetta, gli atti che sono coperti da segreto. I testimoni ci sono ancora». Input che, come confermato dal presidente Morra, saranno raccolti «per aprire uno squarcio su una vicenda oscura in terra di mafia che non possiamo ignorare».
Intanto per Gulotta la battaglia contro lo Stato che lo ha lasciato solo non è finita: dopo l’ottenuto risarcimento di sei milioni e mezzo di euro ha chiesto 66 milioni di danni all’Arma dei carabinieri e ai ministeri della Difesa e dell’Interno. L’Avvocatura dello Stato però si è opposta, parlando di “lite temeraria” e precisando che “non ci sono prove degli abusi”.
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