Il corteo di mistificazioni a proposito di quest’ultima fase della guerra contro lo Stato Ebraico è capeggiato dalla bugia suprema: e cioè che undici mesi di bombardamenti sulle città e sui civili israeliani costituiscono l’iniziativa solidale che le milizie filo-iraniane mettono in campo a tutela del popolo palestinese.

Quella pioggia inesausta di missili, razzi e droni – che non ha causato decine di migliaia di morti non perché quei dispositivi erano caricati a salve, ma solo perché una difesa costosissima riusciva a neutralizzarne la gran parte – è generalmente descritta come l’inevitabile e anche abbastanza giusta reazione di chi assiste alle violenze perpetrate dagli israeliani sui palestinesi di Gaza. Una descrizione – chiamiamola così – di doppia inaderenza considerando, in primo luogo, che Hezbollah aggredisce Israele dall’8 ottobre dell’anno scorso, e cioè a un’altezza di tempo in cui Israele non aveva neppure cominciato a operare su Gaza, e in secondo luogo perché basta vedere quale vita menino i palestinesi in Libano per capire quale sia l’afflato protettivo nei loro confronti da parte di chi si proclama difensore della loro causa.

In Libano, e dai libanesi, i palestinesi sono trattati come cani. C’è una copiosa letteratura e una altrettanto notevole produzione statistica sulle privazioni imposte ai palestinesi dal giogo sionista, ma si dice molto poco e si sa anche meno di come stanno messi altrove. E per esempio proprio lassù, a nord della Galilea incenerita – così si spaccia – a retribuzione dei soprusi che i loro fratelli subiscono nella Striscia e in Giudea e Samaria, la cosiddetta Cisgiordania. Centinaia di migliaia di palestinesi in Libano non hanno titolo al godimento dei diritti elementari e sono discriminati nell’accesso al lavoro, all’istruzione, alle cure mediche, all’acquisto della proprietà, alla tutela giudiziaria, all’ottenimento della residenza.

La mancanza di qualsiasi presidio delle autorità libanesi abbandona le comunità palestinesi a un livello di insicurezza inenarrabile; la violenza di genere e l’abuso dell’infanzia costituiscono una regola che non fa scandalo presso i difensori delle libertà palestinesi, quelle di cui si parla a patto che sia Israele a sacrificarle. I dati dell’Onu e dell’Unrwa, così spesso evocati quando denunciano le sopraffazioni israeliane, costituiscono materia sconosciuta quando recano i numeri delle violenze sessuali subite dalle donne e dalle ragazze palestinesi in Libano, impossibilitate a ottenere giustizia perché godono di un diritto di protezione dimezzato, o senz’altro inesistente.

Le organizzazioni umanitarie, adorate per le loro requisitorie contro le ingiustizie inflitte da Israele all’infanzia palestinese, non ricevono nessuna attenzione quando elencano i numeri dei piccoli palestinesi trasformati in bambini-soldato dai terroristi che hanno fatto del Libano l’avamposto della democrazia delle impiccagioni. Poco importa quando i carrozzoni della cooperazione internazionale – idolatrati se raccontano l’infanzia palestinese derelitta nei Territori Occupati – denunciano le pratiche sostanzialmente schiaviste cui i bambini palestinesi sono soggetti in Libano, usati sistematicamente per lavori inadatti e non raramente come spacciatori e corrieri nel ricchissimo mercato degli stupefacenti. Tutto questo, molto semplicemente, perché il palestinese a favore del quale si rivendicano diritti è quello i cui diritti sono sacrificati dalla protervia israeliana. Cose che andrebbero ricordate a chi dice che Hezbollah si placherebbe se solo Israele la smettesse di infierire su Gaza.