Nei giorni scorsi sono intervenuti, nel dibattito sulla burocrazia, due pesi massimi del diritto. Sabino Cassese, che ha scritto sul Corriere della Sera, e Giuseppe Tesauro che ha rilasciato un’intervista alle pagine di Napoli del nostro giornale. Mi sembra che in questa discussione un punto sia fermissimo: esiste un legame indissolubile tra la possibilità di mettere in moto la ripresa – dopo lo shock virus – e l’abbattimento della burocrazia. Dopodiché è giusto discutere su come procedere, e anche su quali siano le cause della degenerazione della macchina burocratica italiana. Su questo forse ci sono pareri diversi. Non mi pare però che sia in discussione, tra i giuristi e gli esperti, la necessità di prendere delle misure per impedire che la burocrazia blocchi lo sviluppo. Nelle attuali condizioni, la burocrazia è un ostacolo insormontabile allo sviluppo.

Tesauro cita gli altri paesi europei, in particolare la Gran Bretagna, e ci spiega quali enormi vantaggi abbiano le loro economie sulla nostra, grazie a una burocrazia scorrevole ed efficiente. Cassese indica le cause di questa crisi della burocrazia italiana. E assegna quasi tutta la colpa alla politica. Dice che la politica è colpevole perché continua a sfornare nuove leggi, senza cancellare le precedenti, e perdipiù le scrive malissimo; dice che è colpevole perché crea sempre nuovi strati di burocrazia (per esempio l’organismo anticorruzione) allo scopo di non assumere responsabilità dirette; dice che è colpevole perché ha accettato il dilagare dell’idea del sospetto, che porta a follie giuridiche come equiparare reati di mafia e reati contro la pubblica amministrazione; dice – infine – che è colpevole anche perché ha permesso alla magistratura di assumere, spessissimo, il ruolo di decisore finale in grandissime questioni che non la riguardano e che richiedono saperi e competenze che la magistratura non possiede. Sia Tesauro che Cassese poi dicono che la burocrazia non può essere abolita: va riformata.

A me sembra che Tesauro e Cassese abbiano pienamente ragione. La burocrazia, ovviamente, ha una sua funzione in una società democratica. La funzione è quella del controllo. Il problema è che il controllo è diventato un controllo sulle forme, spesso un controllo sulla stessa burocrazia, talvolta un controllo sulle contorsioni inutili della legge, non sulla sostanza. Noi siamo un Paese ad altissima evasione fiscale e un Paese dove l’economia in nero è parte integrante del sistema. Più di ogni altro paese europeo. La burocrazia ha contrastato in qualche modo questi difetti? No, li ha incoraggiati, ostacolando in tutti i modi l’economia legale e favorendo il nero.

Prendiamo questo caso (che conosco). Una società che deve costruire un tratto autostradale non rispetta le norme sulla sicurezza del lavoro e non rispetta neppure i contratti, e svolge una parte del lavoro con operai non regolari. Poi c’è un’altra azienda che aveva vinto l’appalto per quel tratto di autostrada, ma le è stato tolto perché il capomastro aveva una cognata che – dopo l’assegnazione dell’appalto – ha sposato un ragazzo che era stato due anni in prigione per mafia. La burocrazia è intervenuta per impedire che l’appalto andasse all’azienda considerata in odor di mafia, ma non ha nessun interesse, o nessun mezzo, per far rispettare il diritto del lavoro.

È qui che vorrei sentire anche il parere del professor Cassese. A che serve una burocrazia così? A controllare che si rispettino i diritti o ad alimentare se stessa, e il sistema prefettizio, e le procure, e gli enti di controllo e tutto il resto?
Questa burocrazia negli ultimi 25 anni ha preso in mano la macchina dello Stato. Insieme alle Procure. E il risultato è stato il blocco dello sviluppo e la corsa dell’Italia verso gli ultimi posti della classifica tra le potenze industriali.
E questo è successo per una ragione molto semplice. La burocrazia è diventata ideologia. Cioè ha preso il posto delle ideologie precedenti. Molto approssimativamente possiamo dire che esisteva una ideologia di sinistra, dalle vaghe idee egualitarie. E una ideologia di destra, dalle vaghe idee liberiste. Sono state messe tutte e due sul banco degli imputati e sostituite dall’ideologia del “regolismo”.

Che vuol dire? Non contano i valori, non contano i risultati, non contano gli interessi delle classi, non conta l’aspirazione alla ricchezza o alla giustizia sociale. Contano solo le regole. E lo sforzo dei politici deve essere quello di rendere sempre più grande, imperiale, dominante la regola. E deve essere quello di aumentare le regole, moltiplicarle, sovrapporle, perché questo e solo questo crea davvero ideologia o forse addirittura religione. Questa ideologia, come tutte le ideologie, è il punto di incontro di un’idea e di un ceto. E il ceto che si è fatto grande curando questa idea non è solo il ceto burocratico, è un ceto vasto che raggruppa una serie di professioni che vanno dal magistrato, al giornalista, al politico, all’amministratore e persino, talvolta, all’avvocato.  Non sarà facile fare la guerra a questa ideologia. È potentissima. Però, o la facciamo o diventiamo tutti poveri.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.