Dopo cinque settimane di frenesia elettorale, nel Regno Unito è arrivata una calma inquietante prima della tempesta. Di solito, a questo punto della campagna elettorale, i media imperversano a pieno regime. Con soli sette giorni al voto ogni partito farebbe tutto il possibile per far arrivare il proprio messaggio, per ritagliarsi quanto più tempo e spazio possibile sui quotidiani e in televisione. Questa volta non è così, come se i laburisti e i conservatori fossero improvvisamente terrorizzati dall’elettorato britannico. È abbastanza chiaro il motivo per cui una situazione del genere non sia affatto figlia del caso: da una parte i conservatori non hanno alcun risultato da difendere, dall’altra i laburisti sono concentrati per evitare di compiere qualsiasi minimo passo falso. Il tutto appare come una strana e malinconica processione verso uno scenario che sembra inevitabile, ma senza che nessuno – nemmeno il prossimo potenziale primo ministro – sia così euforico.

La realtà è che non è ancora chiaro quale sarà il vero peso delle elezioni. Giudicando il manifesto laburista, è probabile che anche con un cambio al numero 10 di Downing Street si possa assistere in gran parte a un governo di continuità. Forse, dopo essere saliti al potere, i laburisti porteranno cambiamento in alcuni settori della vita pubblica. Potrebbero rendere la Gran Bretagna più dinamica, ad esempio allentando le restrizioni urbanistiche, anche se dovranno combattere con le potentissime lobby del “not-in-my-backyard” (NIMBY, “Non nel mio cortile”) che hanno ostacolato qualsiasi tentativo fatto finora. Inoltre, il rischio è che gli eventuali successi in questo settore possano essere annullati da altre politiche capaci di ridurre lo sviluppo economico della Gran Bretagna in altri modi, tra cui nuove leggi sul lavoro e – più in avanti – gli aumenti delle tasse. Londra potrebbe cambiare profondamente, anche perché la restrizione sullo scudo fiscale per i residenti senza cittadinanza inglese costringerà a un’ulteriore – forse fatale – ondata di emigranti multimilionari e miliardari verso paradisi fiscali più accoglienti. L’Italia, in particolare Milano, sarà tra i principali destinatari di questi danarosi nomadi. I club privati di Mayfair si svuoteranno e gli appartamenti di Knightsbridge verranno svenduti.

Un governo laburista potrebbe destinare maggiori fondi ai servizi pubblici, ma sarà difficile attuare riforme significative e questo potrebbe limitare l’impatto complessivo. Sebbene il Labour si potrebbe concentrare sul migliorare il NHS (Servizio Sanitario Nazionale), è improbabile che i servizi per gli utenti possano cambiare in maniera rilevante, almeno nel breve periodo. Di conseguenza, il cittadino medio in una Gran Bretagna in difficoltà potrebbe non percepire una differenza significativa rispetto a oggi. Nonostante l’economia possa crescere dopo la pandemia e la crisi energetica, è complicato immaginare un ritorno ai livelli pre-2008. Se fosse possibile interpellare Shakespeare, descriverebbe queste elezioni come “molto rumore per nulla“. Eppure il cambiamento sta arrivando, se non altro perché lo status quo e la situazione dell’economia e della società del Regno Unito non sono più sostenibili. Devono essere apportati correttivi alla direzione di marcia, bisogna tagliare la spesa, aumentare la produttività e stimolare la crescita economica. Ma il cambiamento comporta sacrifici, e l’elettorato del Regno Unito non è ancora pronto ad accettarlo. Sono due le principali aree su cui si dovrebbe intervenire con riforme urgenti, eppure nessuno dei grandi partiti – legati da un’omertà dettata dal timore elettorale – ha nemmeno osato parlarne.

La prima, e più evidente, è la Brexit. Una nazione dipendente dal commercio come la Gran Bretagna non può essere fuori da un grande mercato unico sull’uscio di casa. Soprattutto in assenza di nuovi accordi commerciali con altri paesi, e con la svolta protezionistica di Washington. Ormai la percentuale di elettorato che reputa la Brexit una buona idea è scesa a un terzo del totale. A causa del decesso degli elettori più anziani e dell’arrivo nel corpo elettorale dei giovani elettori più inclini ad essere più europeisti, è naturale aspettarsi che in futuro la Brexit venga messa in discussione (o almeno il rientro della Gran Bretagna nell’unione doganale). I due principali partiti sanno che tuttavia rimettere il tema sul tavolo oggi è troppo rischioso. La seconda questione riguarda le pensioni. L’attuale “triple lock” comporta un aumento della pensione in linea con quella che tra queste tre misure è più alta: l’inflazione misurata dall’indice dei prezzi al consumo (CPI) nel settembre dell’anno precedente; l’aumento medio dei salari in tutto il Regno Unito; il 2,5%. Una misura diventata sacrosanta per gli anziani elettori del Regno Unito, e al tempo stesso una zona proibita per entrambi i grandi partiti. Anche solo menzionare la necessità di eliminare o cambiare questo meccanismo sarebbe un suicidio elettorale.

È qualcosa di chiaramente inconcepibile per gli elettori pensionati senza altri redditi. L’esperienza di Emmanuel Macron in Francia insegna: la riforma delle pensioni è inevitabile, ma aprire la discussione nel momento e nel modo sbagliato può trasformarsi in un autogol politico. E così, per ora, tutti giocano sul sicuro. Proprio come Gareth Southgate agli Europei, Sunak sembra rassegnato. Starmer appare preoccupato. In ogni caso, la nave Albion continuerà a navigare in acque sempre più torbide e pericolose. Questioni di cruciale importanza, come le relazioni con l’Unione europea e la riforma delle pensioni, saranno affrontate solo tra molti anni. Fino ad allora, sarà tutto “business as usual”: tutto andrà avanti senza drastici cambiamenti. Bloccati in una calma inquietante e sconvolgente, con tutti i politici a bordo pienamente consapevoli delle scomode realtà che prima o poi dovranno essere affrontate.

Natale Labia

Autore