Lavoro, scenario apocalittico ma non si negozia
La Cgil colleziona scioperi e sconfitte, Landini come Cofferati: sogna di scalare la sinistra
La protesta e la mobilitazione sono sacrosante se c’è il rifiuto al dialogo, ma servono sempre proposte serie. Non basta invocare una vaga redistribuzione della ricchezza e chiamare alla rivolta sociale contro il governo
“Il governo ci infliggerà sette anni di austerità”, recita l’incipit del testo di Cgil e Uil per lo sciopero generale di domani. Segue un lungo elenco di rivendicazioni, dal rinnovo dei contratti alla lotta contro il precariato, da un fisco più equo a un welfare più inclusivo, dalla rivalutazione delle pensioni a una nuova politica industriale. Una svolta nella manovra di Bilancio del governo finanziata, ovviamente, tassando extra-profitti e grandi patrimoni. Il sindacato fa il suo mestiere, si dirà. È proprio così, e allora la Cisl (che non partecipa allo sciopero) ne fa un altro?
Scioperi e sconfitte altro che negoziati
Forse Maurizio Landini, con la sua “rivolta sociale”, ha in mente un’operazione egemonica sulla sinistra politica. La tentò Sergio Cofferati nell’ormai mitologico raduno del Circo Massimo contro l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (23 marzo 2002). Sappiamo come è andata a finire. Ma non è questo il punto. Un sindacato che colleziona scioperi generali e sconfitte, sconfitte e scioperi generali, qualche domanda dovrebbe porsela. Il mestiere del sindacato è quello di negoziare, e poi ancora quello di negoziare. E, quando un governo rifiuta il dialogo, la protesta e la mobilitazione sono sacrosante. Ci vogliono delle proposte serie però, non limitarsi a invocare una vaga redistribuzione della ricchezza.
Lo scenario apocalittico
Da ultimo, mi domando: quando pensano al futuro del lavoro, Cgil e Uil a cosa pensano? A fabbriche popolate solo di automi che si muovono freneticamente? Ai professionisti delle “Stem” (scienza, tecnologia, engineering e matematica) che diventano il cuore pulsante dell’impresa? All’Intelligenza Artificiale che si sostituisce all’intelligenza umana? A un algoritmo che taglia senza pietà costi e manodopera? Sono scenari apocalittici, immaginati dai neoluddisti del terzo millennio per contestare una verità elementare, ossia che ogni rivoluzione tecnologica comporta la nascita di lavori nuovi e – parallelamente – la trasformazione di vecchi lavori, determinandone anche la marginalità o la scomparsa.
Il sindacato si sta impegnando per affiliare e proteggere questi lavoratori? Senza negare i passi in avanti compiuti su questo terreno, sono convinto che non sia più procrastinabile la ricerca di una tutela e di una rappresentanza “postnovecentesca”. In questo senso, la regolazione dei lavori – il plurale è d’obbligo – deve cominciare dal mercato, ossia prima che il lavoratore trovi un impiego, e non solo quando sta per perderlo o lo ha perduto.
Le prospettive della rivoluzione digitale restano problematiche, sia chiaro. La cosiddetta economia della conoscenza può essere caratterizzata sia da zone grigie tra autonomia e nuove forme di asservimento, sia da condizioni che valorizzano la responsabilità, la creatività, la partecipazione della persona che lavora. La seconda prospettiva richiede idee e lotte credibili, lontane dall’estetismo spontaneista della cultura del conflitto. Richiede, inoltre, che il movimento sindacale non resti frastornato, diviso e incerto di fronte a novità che sembrano minacciarlo, ma che non basta esorcizzare o maledire. Vedere la storia come un susseguirsi di fregature e di tradimenti, per cui il mondo migliore è sempre quello che non c’è, significa consegnarsi all’irrilevanza politica nel mondo che c’è.
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