Caro Monsignore, come si può spiegare l’abisso che c’è tra il Vangelo e la storia della Chiesa? Penso al samaritano, di cui tu hai scritto recentemente, o all’adultera, o all’ultima cena, e non so come metterli vicini a una storia della quale fa parte la conquista dell’America latina, l’inquisizione, la biografia poco edificante di tanti papi e cardinali, praticamente fino alla svolta di Roncalli. Allora devo separare nettamente la Chiesa e il Vangelo? Mi pare di sí. Come posso tenerli insieme?

Piero Sansonetti

Caro Direttore, ti ringrazio per questo gruppo di domande, tutte importanti, impegnative, da considerare attentamente. Sono temi che abbiamo il dovere di affrontare perché va presa seriamente la questione sulla coerenza e sul ruolo delle persone all’interno delle istituzioni, a partire dalle istituzioni ecclesiali. Nel «gergo» cattolico quando le persone professano la fede e si comportano in modo difforme, la definiamo «contro-testimonianza». Si potrebbe dire come fanno gli abitanti di Roma, almeno quelli della mia generazione, quando in strada vedono passare una vettura con la targa «SCV»: i «romani de’ Roma», come sai, ritraducono quello Stato Città del Vaticano in un ben più prosaico: Se Cristo Vedesse!

La battuta ironica ci rammenta la serietà delle domande sugli effetti di «contro-testimonianza» prodotti da comportamenti gravemente difformi dalla coerenza con la «causa» del Vangelo. Uno stile coerente dovrebbe essere quello dell’apertura verso gli altri, della fraternità, del rispetto, della dedizione. I beni che la Chiesa offre sono un viatico per il regno di Dio, non un accesso al caveau degli arcivescovadi. Il tema è dibattutissimo in teologia, fin dall’inizio della Storia della Chiesa. Ai tempi delle persecuzioni del III e IV secolo – una recrudescenza terribile da parte di imperatori come Decio e Valeriano o Diocleziano – si verificarono casi di cristiani che preferirono rinnegare il Vangelo per non perdere la vita. Erano molti. Per loro si coniò il termine di «lapsi», cioè «scivolati». La caduta aveva diverse forme: c’erano i sacrificati, che avevano offerto un vero e proprio sacrificio cultuale alle effigi degli dèi o alla statua dell’imperatore, i thurificati che avevano soltanto bruciato qualche granello d’incenso innanzi alle immagini, i libellatici che avevano esibito alle autorità un certificato di idoneità civica ottenuto da funzionari compiacenti o addirittura corrotti con denaro. In Africa, sotto Diocleziano, si ebbe anche il fenomeno dei traditores, che avevano consegnato alle autorità i libri della Sacra Scrittura.

Una volta terminate le persecuzioni si affrontò il tema della riammissione nella Chiesa di questi «lapsi», di nuovo pentiti del loro comportamento e della loro debolezza – comunque della «contro-testimonianza» offerta – e desiderosi di rientrare nella comunità cristiana. Fu proprio un Papa di Trastevere, San Callisto, a battersi per il perdono, in opposizione a Ippolito, un teologo intransigente, che voleva inchiodarli al loro peccato. Papa Callisto, a difesa della tesi del perdono, portava ad esempio san Pietro, che tradì Gesù: ma fu perdonato. Questo rapido riferimento storico è solo per dire come la Storia della Chiesa è costellata fin dall’inizio dalla “contraddizione” di «peccati» e «debolezze» di coloro che ne fanno parte. Tradimenti che coinvolgono la credibilità dell’istituzione ecclesiastica e indeboliscono la società stessa della quale la comunità cristiana è parte integrante.

Per i credenti della confessione cattolica, la Chiesa è una istituzione voluta da Gesù Cristo. Ma le persone che la abitano sono umane come noi: sempre a rischio di mostrarsi deboli, incoerenti, egoisti, chiusi in noi stessi. Fino a diventare ciechi, muti e sordi, talvolta, di fronte ai problemi seri e urgenti che ci interpellano. E sappiamo tutti molto bene quanto il Vangelo che professiamo – laici, sacerdoti, vescovi e cardinali, perfino papi – debba fare sempre i conti con le debolezze e le difficoltà di ognuno. Accade lo stesso in ogni ambito della vita e in ogni situazione umana, familiare, professionale. È la stessa condizione umana a essere debole, fragile, passibile di incoerenza.

Naturalmente le spiegazioni – che possono avere a che fare con le storie di vita, con le situazioni, con la «psicologia» di ognuno – non nascondono la serietà dell’interrogativo. Come si può ricadere così all’indietro nel male, quando si è ricevuta una grazia così grande come la fede, che ci spinge avanti nel bene? Papa Francesco ha affrontato molte volte questo tema fin dall’inizio del pontificato. La sua azione decisa – ad esempio – nei confronti di contro-testimonianze imbarazzanti e scottanti – ma persino criminali e vergognose, come le vicende degli abusi – dimostra una volta di più l’importanza di prendere posizione e «cambiare» prassi: non solo «punendo», ma avviando processi di trasformazione profonda nella gestione delle comunità e nella formazione delle persone.

Nell’udienza generale del 2 ottobre 2013, dunque pochi mesi dopo l’inizio del pontificato, Papa Francesco ha affrontato apertamente il tema della «contro-testimonianza». Pronunciò parole franche e trasparenti: «Siamo una Chiesa di peccatori; e noi peccatori siamo chiamati a lasciarci trasformare, rinnovare, santificare da Dio. C’è stata nella storia la tentazione di alcuni che affermavano: la Chiesa è solo la Chiesa dei puri, di quelli che sono totalmente coerenti, e gli altri vanno allontanati. Questo non è vero! Questa è un’eresia! La Chiesa, che è santa, non rifiuta i peccatori; non rifiuta tutti noi; non rifiuta perché chiama tutti, li accoglie, è aperta anche ai più lontani, chiama tutti a lasciarsi avvolgere dalla misericordia, dalla tenerezza e dal perdono del Padre, che offre a tutti la possibilità di incontrarlo, di camminare verso la santità». E dopo questa premessa, nella seconda parte di quel discorso ai fedeli in Piazza San Pietro, diede una importante «chiave» di lettura. «Il Signore ci vuole parte di una Chiesa che sa aprire le braccia per accogliere tutti, che non è la casa di pochi, ma la casa di tutti, dove tutti possono essere rinnovati, trasformati, santificati dal suo amore, i più forti e i più deboli, i peccatori, gli indifferenti, coloro che si sentono scoraggiati e perduti.

La Chiesa a tutti offre la possibilità di percorrere la strada della santità, che è la strada del cristiano: ci fa incontrare Gesù Cristo nei Sacramenti, specialmente nella Confessione e nell’Eucaristia; ci comunica la Parola di Dio, ci fa vivere nella carità, nell’amore di Dio verso tutti. Chiediamoci, allora: ci lasciamo santificare? Siamo una Chiesa che chiama e accoglie a braccia aperte i peccatori, che dona coraggio, speranza, o siamo una Chiesa chiusa in se stessa? Siamo una Chiesa in cui si vive l’amore di Dio, in cui si ha attenzione verso l’altro, in cui si prega gli uni per gli altri?»
La Chiesa ha incorporata in sé stessa la necessità di chiedere perdono: si chiamava confessione, ora riconciliazione, ed è un sacramento costitutivo dell’appartenenza alla Chiesa. Non si è cacciati fuori perché peccatori, si è richiamati dentro per farsi perdonare. La serietà di questa pratica decide la testimonianza della Chiesa: riconoscere i peccati, cambiare i peccatori. L’umana debolezza è un’eredità comune: il rigore dell’autocritica è una grazia da condividere. Ecco la risposta, caro Direttore. L’umiltà con la quale sappiamo perdonare gli altri ci tiene lontani dalla presunzione di essere senza peccato.

Non è stato Pietro il primo a rinnegare Gesù per tre volte, per paura, nella sera della Passione? La rilettura di quel passaggio del Vangelo è uno straordinario documento sulla fragilità, sul pentimento, sulla necessità di cambiare riconoscendo di avere sbagliato. Ecco un’altra «chiave» di lettura: lo scandalo irreparabile non è la «contro-testimonianza» perché fa parte della nostra natura umana in tante situazioni di vita e in tanti momenti. Lo «scandalo» irreparabile è negare ostinatamente il peccato, contro ogni evidenza, e presumere di non avere bisogno di perdono, dichiarandosi puri. Il tribunale della storia, cosiddetto, emette continuamente sentenze sbagliate: e ciò avviene quando cade in questa doppia arroganza (e non vale solo per i credenti). Nella vicenda della Chiesa – segnata certamente da cadute e comportamenti contrari al Vangelo, capaci di influire sul corso della storia di continenti e popoli – troviamo sempre all’opera uomini e donne capaci di indicare direzioni diverse, di denunciare profeticamente gli errori e avviare processi di trasformazioni epocali.

Vorrei terminare invitando i lettori a recuperare un documento a due voci, unico e ricchissimo. Il dialogo tra il teologo svizzero Han Urs von Balthasar e il teologo tedesco Joseph Ratzinger, risalente al 1971 e pubblicato in Italia da Queriniana con il titolo Perché sono ancora cristiano — Perché sono ancora nella chiesa. Sono ancora cristiano, dice von Balthasar, perché «quanto nella vita umana è assurdo e negativo trova senso e significato nell’incarnazione e nella croce e risurrezione di Cristo». «Perché sono ancora cristiano?», si chiede Hans Urs von Balthasar. Perché il cristiano, risponde, «sa accompagnare silenziosamente i fratelli e le sorelle anche e soprattutto là dove gli altri si fermano». E perché sa che «quanto nella vita umana è assurdo e negativo trova senso e significato nell’incarnazione di Dio in Cristo: in lui l’Amore è riuscito a trasformare la solitudine della morte in una sofferenza che redime».

Rimango nella Chiesa e la amo, spiega Ratzinger, «perché è solo la Chiesa che, al di là delle sue infedeltà e delle debolezze umane, ci può dare Gesù Cristo», l’unico che redime l’umanità e la storia. «E perché mai restare nella Chiesa?», si chiede Joseph Ratzinger in seconda battuta. Io rimango nella Chiesa e la amo, risponde il teologo, perché «è la Chiesa che, al di là delle sue infedeltà e delle debolezze umane, ci può dare Gesù Cristo», l’unico che redime l’umanità e la storia. E inoltre perché «la fede, che è una vera necessità per ogni essere umano e per il mondo, è possibile soltanto in comunione con altri credenti».