Brutta aria nel mar della Cina
La Cina sull’orlo della guerra, tra Taiwan e isole Salomone il dominio imperiale di Pechino ad Est
Xi Jinping non sta buono mentre Putin invade l’Ucraina. Sarà pur vero che aspetta di mettere un cappio (economico) al collo del suo alleato russo, di comprarselo a fascicoli se uscirà indebolito dalla guerra d’aggressione a Kiev che gli ha messo contro l’Occidente, ma pur sempre del suo alleato si tratta, lo stesso con cui ha firmato solo due mesi e mezzo fa un accordo strategico. Mentre Putin tenta di allargare i confini della Russia a ovest, Xi Jinping piazza un paio di mosse per imporre il suo impero a est. Fa sorvolare Taiwan da 11 caccia cinesi proprio mentre è in corso una storica telefonata tra il capo della Difesa cinese Wei Fenghe e il capo del Pentagono Lloyd Austin.
Non si erano mai parlati prima. Non c’erano contatti diretti a quel livello da molti mesi e proprio mentre i due parlavano amabilmente di legami bilaterali, dossier Taiwan, vicende di sicurezza marittima e aerea e situazione in Ucraina, i jet cinesi e due bombardieri obbligavano i caccia di Tapei a alzarsi in volo perché lo spazio aereo taiwanese era stato per l’ennesima volta violato. Seconda mossa: firma un accordo bilaterale di sicurezza con le isole Salomone, fondamentali nel controllo del mar cinese del sud che è la ragione per cui Pechino non molla su Taiwan. Poi spiega molto poco amichevolmente a Biden: “Siamo contrari a sanzioni unilaterali, doppi standard, giurisdizione a braccio lungo e alla mentalità della guerra fredda”. Collegato in video al Boao Forum for Asia, ha detto che “le tattiche di pressione non funzioneranno”. Ha detto di opporsi “alla costruzione della propria sicurezza” a spese di altri e “alla mentalità della Guerra fredda”.
Xi Jinping, esattamente come Putin, non sta facendo altro che quel che da tempo ha dichiarato di voler fare: scrollarsi di dosso un ordine mondiale che non sente adeguato alla sua potenza senza dissimulare tutta la sua insofferenza. L’accordo con le Salomone non prevede costruzione di basi, ma la sola firma è di per sé una provocazione perché le isole stanno lì dove si controlla quel pezzo di mare fondamentale per la Cina (e per Taiwan). Il patto è il premio per la decisione, presa dalle Salomone l’anno scorso, di interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan considerandola d’ora in poi territorio sottratto a Pechino. La lista degli alleati di Taiwan si sta via via riducendo. Negli ultimi sei anni molti Paesi interessati a stringere ancor più i vincoli con la Cina, hanno disconosciuto l’isola e si sono venduti alla parte cinese. In cambio di investimenti, finanziamenti diretti e rapporti rosei con Pechino. Gli Stati Uniti, giocando di sponda con l’Australia con grossa influenza sull’arcipelago, hanno tentato di convincere le Isola Salomone a non firmare. Ma sena successo. Ha potuto più la Cina, l’inclusione delle isole nella Nova via della seta (che è e resta un progetto di politica imperiale, non soltanto un piano strategico di espansione economica) e la promessa della costruzione di uno stadio enorme.
L’Australia s’è preoccupata non meno di Washington perché teme l’intenzione cinese di costruire una base militare nelle Isole Vanuatu, situate a meno di 1500 miglia dalla sua costa nord-orientale. Se l’accordo preoccupa l’Australia, terrorizza Taiwan che sa come l’ossessione di Pechino di controllare ciò che transita nel Mar della Cina sia una razionalissima necessità della volontà di potenza dell’antico impero. Taiwan, isola che si vuole indipendente ma di cui la Cina rivendica il possesso, sta lì a galleggiare in uno spazio strategico tra Mar cinese meridionale e Mar cinese orientale. È inevitabile la sua candidatura naturale a casus belli in quella che è già da tempo la scena in cui si svolge lo scontro per decidere chi comanderà al mondo più degli altri nel prossimo futuro. Quell’isola serve a Xi Jinping a controllare l’accesso agli oceani. Per quelle strade d’acqua passa il novanta per cento del commercio marittimo. La rotta principale collega, attraverso stretti indocinesi e indonesiani, i porti della Cina orientale al Medio Oriente, all’Africa e all’Europa. E conseguentemente all’America del nord e del sud.
Formalmente Taiwan si chiama Repubblica di Cina, resto dello Stato fondato nel 1912 sulle ceneri dell’impero Qing. Su quell’isola e sulle isolette sparse lì intorno si rifugiò Chiang Kai-shek, capo nazionalista della Repubblica di Cina, dopo aver perso contro Mao. Instaurò sull’isola una dittatura. Pechino la considera da sempre roba sua. Ma Taiwan, ora grosso modo democratica, si considera comunque indipendente. Perché finora il caso è sempre rientrato tra le crisi che covano sotto la cenere senza però ardere a fiamme alte? Perché i capi politici di Taiwan hanno accettato, per non rovinarsi i rapporti con gli americani, di non squarciare il velo d’ipocrisia con cui Pechino e Washington tengono coperta la questione Taiwan. “Cina unica” si chiama questo velo. Una formula vuota di significato reale, ma densa di accordi a tacere per convenienza, con cui le due diplomazie delle superpotenze hanno evitato finora di confliggere evitando di affrontare lo spinoso dossier. Un comodo tabù che ha fatto comodo a tutti, compresi i taiwanesi.
Quando lo scontro tra Pechino e Washington si scalda su altri fronti, il velo della “Cina unica” viene sollevato. Pechino non ha ragione di non esibire la sua volontà di prendersi Taiwan perché non ha ragione di tacere sulla volontà di prendersi gli oceani. E proclama quindi quando può che entro il 2049, anniversario di regime, l’isola tornerà sotto completo controllo cinese. Washington non può lasciarla fare se non vuole suicidarsi come potenza globale. Pechino non dichiara guerra, ma provoca, polemizza e rende più forti la sua Marina e la sua Aeronautica. Gli Stati uniti si schierano a difesa dell’isola. Chissà se stanno impiantando là armi di punta. Di certo lavorano per tenersi cari tutti i Paesi dell’area indopacifica così da poter minacciare di chiudere le rotte in caso di conflitto con la Cina. Su chi conta Pechino? Su se stessa e basta. Perché certo la Corea del nord e il Pakistan, suoi alleati, non sono sostegni favolosi. E il regime non possono fidarsi della Russia di Putin che, a sua volta, teme l’espansionismo cinese perché sempre sotto casa sua sta e potrebbe entrare attraverso le lande siberiane. Intanto però Mosca assicura tecnologia, energia e armi.
Tutto ciò potrebbe essere anche considerato, sbagliando baruffa diplomatica ed esibizione tutto sommato innocua di potenza se Xi Jinping non avesse insieme a Putin scritto nero su bianco che il mondo così come è disegnato a loro non va bene e ne intendono imporre un altro. L’hanno proprio scritto. Nel documento firmato il 4 febbraio a Pechino dai presidenti di Russia e Cina si legge pari pari: “Le parti fanno un appello a tutti gli Stati perché proteggano l’architettura internazionale così come l’Onu l’ha disegnata e perché perseguano un autentico multipolarismo nel quale le Nazioni unite e il loro Consiglio di sicurezza svolgano un ruolo centrale e di coordinamento”. Putin e Xi Jinping si afferrano a quel diritto di veto che custodiscono come un tesoro prezioso con l’intenzione di usarlo per far saltare tutta la struttura geopolitica attuale che non è necessariamente identica a quella della fine della Seconda guerra mondiale perché dal ’45 a oggi la storia non s’è imbalsamata. Lasciano intendere che useranno il consesso dell’Onu per giocare di sponda tra loro e tessere relazioni favorevoli alla affermazione di quel nuovo ordine mondiale che, spiegano subito dopo, fa la guerra ai valori democratici occidentali.
La Cina, cioè l’orrido partito comunista cinese antidemocratico che s’è fatto Impero, vuole imporre il concetto che la democrazia non coincide con il modello occidentale, ma che esistono tante democrazie. Si inventa un modello variabile così da poter spacciare per democratico un sistema autoritario a partito unico in cui gli oppositori spariscono e non esiste la libertà d’espressione. Si legge nel testo che “democrazia è qualsiasi sistema rifletti gli interessi di tutti, la loro volontà, garantisca i loro diritti, soddisfi le loro necessità e protegga i loro interessi”. Il documento congiunto è una dichiarazione di guerra ai princìpi basilari della democrazia. Mosca e Pechino scrivono esplicitamente che “non esiste un modello unico per guidare i Paesi al rafforzarsi della democrazia”. Una frase per respingere senza argomentare nulla ogni critica di autoritarismo nei loro confronti venga pronunciata.
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