È una guerra non convenzionale. Da un lato il virus, dall’altro la competizione tra Stati e tra modelli di governance. Del virus che furbescamente s’insinua nei polmoni sappiamo poco, così poco che, per ora, non riusciamo né a sconfiggerlo né ad ammaestrarlo. Della competizione tra stati sappiamo qualcosa di più. Partiamo dalla Cina, la grande potenza dove è iniziato tutto questo. Come avevamo anticipato la tendenza è che la Cina da causa diventi la soluzione. Autorevoli commentatori hanno iniziato a recitare il mantra “la Cina è la locomotiva della ripresa”.

L’immagine che sta passando è quella dell’Italia questuante in cerca di carità, piegata scientificamente e materialmente agli aiuti provenienti da Pechino. Sono arrivati i medici e gli infermieri dall’estremo Oriente, sono arrivate (pagate o donate?) mascherine, grembiuli ed altro materiale sanitario. Una copertura mediatica a tutto tondo per farci sperare e sognare. Atteggiamento finanche comprensibile: quando il dolore è così forte si è pronti a tutto. Dalla Cina una decina, tra medici ed infermieri, e due pallet di presidi sanitari sono diventati un fenomeno paragonabile solo al vecchio post bellico Piano Marshall.

Naturalmente dobbiamo essere grati alla Cina, e a qualsiasi altro paese che s’adopera a portare aiuto. Senza dimenticare che si tratta di buoni azioni già contraccambiate: il 15 febbraio scorso dall’aeroporto di Brindisi è partito un carico di mascherine diretto in Cina. Così le cronache locali descrivono il pacco dono: «È partito questo pomeriggio dalla Base di pronto intervento della Nazioni Unite di Brindisi un volo umanitario diretto in Cina per fronteggiare l’emergenza sanitaria del Coronavirus. Il volo è decollato alle 14.50 ed è diretto a Pechino. Sul velivolo sono state imbarcate diciotto tonnellate di materiale medico-sanitario di protezione personale donato dalla Cooperazione Italiana e dall’Ambasciata cinese in Italia. Si tratta di mascherine, tute, occhiali protettivi, guanti e termometri».

Che cos’è il soft power? Per il vocabolario Treccani: “l’abilità nella creazione del consenso attraverso la persuasione e non la coercizione” e per coercizione s’intendono anche le bombe i cannoni. Soft power è il termine anglosassone, senza dubbio più elegante e dotto dell’italianissimo imbonire, nel senso di rendersi favorevole a qualcuno. Non con le sberle e i calci, ma con gentilezza e fermezza. La pubblicazione, nel circuito cinese, della clip che mostra l’Italia sostenuta da due infermiere cinesi ben rappresenta una distorsione della realtà.

Altri messaggi (a volte ambigui) li troviamo in newsletter diffuse da associazioni cinesi con sede in Italia. Qual è il confine tra innocente beneficenza e collaborazione-aiuto interessato? Huawei Italia, per contribuire alla lotta contro il Coronavirus, ha offerto non solo di donare apparati di protezione, ma anche la possibilità di collegare in cloud gli ospedali italiani tra loro comunicando con le unità di crisi. Senza dubbio gesti apprezzabili, ma il collegamento fra ospedali e unità di crisi non può forse essere inserito in un contesto di “sicurezza nazionale”?

In questo periodo così importante la conoscenza, il conoscere come in realtà si sia propagato il Coronavirus è un elemento imprescindibile. Avere a disposizione un chiaro panorama di come si è sviluppato e diffuso è fondamentale per aiutare tutti, soprattutto i medici e i ricercatori. Il famoso virologo Roberto Burioni nel libro a sua firma appena uscito non lascia spazio ad interpretazioni: “dei dati cinesi c’è davvero poco da fidarsi”.

A supporto della tesi due recenti importanti articoli apparsi sul South China Morning Post. Il primo raccoglie la testimonianza di Ai Fen, direttore del dipartimento di emergenza del Whuan Central Hospital che conferma quanto condiviso dal defunto “eroe nazionale” Li Wenliang, (il medico che anzitempo condivise mezzo WeChat con i colleghi il timore della presenza di un virus simile alla SARS, venne severamente ammonito dalle autorità locali e costretto a fare pubblica ammenda), cioè di avere notato «un flusso di pazienti da polmonite settimane prima che i funzionari confermassero che la trasmissione del virus da uomo a uomo era possibile».

L’intervento del medico Ai Fen originariamente è apparsa su un settimanale cinese, prima di essere censurata. Il secondo articolo racconta come il primo caso di Coronavirus risalirebbe a metà novembre, quindi due settimane prima del 1 dicembre: data indicata dalla rivista medico scientifica The Lancet come quella dell’apparizione dei primi sintomi del contagio. Anche una superficiale lettura del triste bollettino di guerra giornaliero impone alcune riflessioni. Arrotondiamo. Perché in Cina si contano “solo” 3.300 deceduti e in Italia superano i 3.000? Non vi è proporzione tra il numero dei deceduti, il numero di abitanti, la densità abitativa, la dimensione geografica e il periodo intercorso dal primo caso tra Italia e Cina. Sembra che noi siamo particolarmente vulnerabili al virus.

Muoriamo molto di più dei cinesi. Perché? Siamo vulnerabili come lo è la nostra borsa, i cui titoli fortemente castigati dagli eventi diventano appetibili. Siamo sul mercato a basso prezzo. L’Europa ha, ancora una volta, dimostrato la fragilità e la frammentazione. Non esiste uno spirito europeo, ma nazionale. Ogni nazione pensa a sé, al suo tornaconto economico. Poi, forse, c’è anche chi ha pensato di fare un po’ di speculazione.

Il Coronavirus è una cartina di tornasole: evidenzia latenti scontri culturali. L’Italia è stata in Europa la prima nazione ad essere colpita, la prima che ha dovuto fare i conti con il Coronavirus, la prima che ha adottato alcuni drastici provvedimenti. Chiudere le scuole, i locali pubblici, limitare i contatti, cantare insieme al pomeriggio, ora che il contagio si diffonde provvedimenti e atteggiamenti vengono copiati da altri Paesi che fino a pochi giorni fa li giudicavano esagerati. L’Italia è stata criticata e derisa, forse per esorcizzare il male che era già arrivato ma che non si voleva vedere. Ed ora che la Cina può (deve?) diventare la “locomotiva della ripresa” forse occorre una seria riflessione sul modello di globalizzazione in vigore fino ad oggi.