Clarice Lispector è una scrittrice che sbrigativamente definiremmo “difficile”. Il che non vuole dire affatto cerebrale o noiosa. Ma è una di quelle grandi letterate del Novecento in grado di incantarci a patto di saper entrare nel suo raffinatissimo labirinto di parole, sensazioni, sguardi, suoni, edifici, strade. Camilla Baresani tempo fa scrisse: «Con la speciale grazia del suo spirito indisciplinato, la scrittrice intreccia riflessione morale e finezza letteraria, e per farlo si serve di uno sguardo che sa entrare nell’intimità delle persone, togliendo con impudicizia le incrostazioni, smascherando l’aspetto convenzionale della vita per arrivare all’origine dell’istinto vitale».

Praticamente un universo che lascia uno sgomento nel lettore. Lispector era nata in Ucraina nel 1920 (è morta nel 1977) ma da piccolissima fu portata in Brasile, a Recife e poi a Rio, ed è una delle più alte voci della letteratura brasiliana. Eppure noi la sentiamo come una vivida fonte di arte tipicamente europea, chissà perché. Probabilmente perché conosceva molto bene l’Europa essendo stata moglie di un diplomatico con cui visse per 15 anni in varie città europee. E amava molti scrittori della vecchia Europa.

Questo “La città assediata” che è uscito ora per Adelphi (trad. di Roberto Francavilla e Elena Manzato) è un esempio notevole di quel tipo d’introspezione letteraria che riconosciamo nel Sartre filosofico o, essendo molto femminile il suo punto di vista, in Virginia Woolf (come notò Roberto Calasso) o, a noi pare, nella giovane Marguerite Duras. C’è dunque qui la protagonista, Lucrécia Neves, che guarda come in tralice il suo piccolo mondo del villaggio di Sāo Galgado aspettando l’uomo che la porti via verso la grande città intesa non come metafora del riscatto social ma piuttosto come avventura dello spirito.

Ma la cosa, tra tradimenti, illusioni e morte, non finirà bene. Attorno a questo esile scheletro narrativo, Lispector disegna un’infinità di arabeschi nel dialogo tra Lucrécia e se stessa – qualcuno qui ha pensato a James Joyce, tanto per tornare all’Europa. La protagonista insomma non riesce a “vedersi”, cerca di reificarsi nella città, negli edifici, come se per se stessa non esistesse, in uno straniamento continuo che sfiora il magico. “La città assediata” di Clarice Lispector è letteratura alta, un romanzo inquieto, di nervi e di vista annebbiata, di ricerca e di liberazione mancata. Le parole, soprattutto, regnano. Sublime nella sua forma esteriore, questo libro ci parla di un mondo nel quale interno è appunto “assediati” dall’esterno, dove tutto sfuma come nei sogni.