“La classe dirigente del Pd deve voler meno bene a sé stessa e più alla nostra comunità”, intervista a Roberto Morassut

Roberto Morassut, parlamentare Dem, un passato da amministratore del Comune di Roma, assessore all’Urbanistica e a Roma capitale nella giunta Veltroni. Le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia sono gli appuntamenti elettorali più importanti nel 2023, anno in cui si voterà anche in Friuli-Venezia Giulia e Molise. È tempo di rivincita per la sinistra?
Non credo…. I dati sono oggettivi. Sarà molto difficile vincere. Ma i candidati del centro-sinistra sono forti, radicati e credibili. Nel Lazio Alessio D’Amato sta cercando di aprire un dialogo con il Movimento Cinque Stelle ed allargare il perimetro della coalizione a suo sostegno. Però le battaglie elettorali si devono fare sempre, anche in condizioni difficili, con il massimo delle energie. Una campagna elettorale si può perdere ma essa può essere l’occasione per gettare nuovi semi, suscitare nuove energie. Il Pd ed il centro sinistra sono in una fase di transizione molto complessa. Questa transizione avrà inevitabilmente uno sbocco. Personalmente vorrei che non fosse troppo lontano negli anni ed è per questo che da anni mi batto per una radicale trasformazione del Partito Democratico. Proposi una Costituente nel 2016, per primo ed in splendida solitudine, ma con finalità e modalità molto diverse da quelle decise oggi. Per questo mi sono astenuto, in Assemblea Nazionale, sul percorso scelto oggi. Comprendo e apprezzo il lavoro che Enrico Letta ha svolto cercando di tenere dentro esigenze e spinte diverse. Mi spiace essermi distinto nel voto, cosa che probabilmente non ho mai fatto. Ma ritengo che così come stiamo procedendo possiamo solo illuderci di cambiare le cose. La prospettiva di un “nuovo Pd” non ha fiato, non serve una riverniciatura ad un edificio molto compromesso. Già oggi il Pd ha perso molti iscritti. Certamente resta un grande partito, con 5 milioni di voti. Ma quel capitale va investito per un progetto di lungo respiro e non per una scelta di orgogliosa resistenza. L’attuale classe dirigente deve volere meno bene a sé stessa e più alla nostra comunità.

Lei è stato eletto, unico esponente Pd in un collegio uninominale, a Roma. E a Roma ha ricoperto ruoli amministrativi importanti. Nel Lazio si può vincere senza un’alleanza con il Movimento 5 Stelle?
È difficile ma si può fare ad una sola condizione. Egli deve dare alla sua candidatura e alla sua proposta un fortissimo carattere civico. Si rivolga alla società reale, alla polpa progressista della Regione e della città, fatta di lavoro, di impresa, di professioni, di associazionismo e di terzo settore, di volontariato laico e cattolico. Naturalmente tenga conto dei partiti e delle forze politiche ma non si lasci intrappolare. Le forze politiche che lo sostengono lo facciano con intelligenza, facendo un passo indietro e mettendo a disposizione quanto di più fresco dispongono. D’Amato deve scegliere il modello di Coletta a Latina e di Tommasi a Verona. Egli è stato un ottimo amministratore ed ha più forza nella società civile che nel ceto politico consolidato. So bene che i casi che ho citato sono riferiti a vittorie ottenute al secondo turno, al ballottaggio. Ma qui non abbiamo altra scelta. Altro consiglio: non si ingessi nell’encomio del passato. L’esperienza decennale alla Regione è stata straordinaria ma nel cuore e nella mente degli elettori è già archiviata. È già storia. In nome della continuità abbiamo perso molte battaglie in passato. Ricordo il 1985 con il grande Ugo Vetere o il 2008 con Francesco Rutelli. I sentimenti che animano il ceto politico quasi mai corrispondono a quelli del popolo soprattutto quando si fanno bilanci e si guarda al futuro. Serve un messaggio di discontinuità ed Alessio è la figura migliore per capire come e dove modularlo.

Per il Pd è anche tempo di congresso. Enrico Letta ha annunciato per il 19 febbraio le primarie e già è iniziata la corsa alla segreteria.
Noi abbiamo bisogno di una profonda discussione interna ma anche di confronto con la società che restituisca al movimento democratico la forza dei propri valori attraverso nuove energie e una linea politica che oggi non abbiamo. Un Pd troppo piccolo e in discesa, come oggi, diventa l’asino di Buridano al quale i presunti “alleati” pensano di poter chieder di tutto e di tirarlo da ogni parte. Penso, da anni, ad una costituente, vera. Che duri il tempo che deve durare, che metta al centro la politica prima dei leader. Se non lo facciamo adesso arriverà il momento in cui dovremo farlo se non sarà troppo tardi. Partire dal lavoro di un gruppo plurale e raccolto di figure autorevolissime del nostro campo democratico che in un tempo ragionevole elabori un “manuale per la sinistra” fatto di punti essenziali e che poi viaggi nella società, in mille assemblee nei luoghi di lavoro e di studio e nei territori. Venga emendato e integrato da una discussione popolare e poi restituito come nuovo libro di viaggio. Mi è stato sempre contestato, anche in questa circostanza, che non possiamo stare fermi per mesi, che la politica corre e ci vuole un capo. Ma una vera costituente è un grande moto collettivo che di per sé stesso è una grande iniziativa verso la società. Invece abbiamo scelto una strada che di fatto esclude il confronto popolare, lo riduce a un momento assembleare da svolgere sotto Natale e consegna tutto nelle mani delle élite. Sia l’elaborazione del “Manifesto”, sia la sua approvazione.

Identità. Parola usata e abusata nel dibattito politico. Una parola che il più delle volte non viene sostanziata. Provi lei a declinarla.
Ho in testa una identità liberal-socialista. Ricongiungere diritti civili e diritti sociali, due grandi universi della libertà che nella storia moderna e contemporanea, dalla Rivoluzione francese, fino al termine del Novecento hanno camminato su binari paralleli incontrandosi raramente. In generale, però, la cultura liberale ha privilegiato i diritti individuali spesso a scapito dei diritti collettivi ed il movimento socialista il contrario, fino alle patologiche degenerazioni del socialismo reale che hanno compresso entrambi. Collegare tutto questo all’emergenza ambientale. Definirsi “democratici” vuol dire questo, per me. Oggi, in Italia, noi abbiamo una grande questione salariale aperta. L’ingiustizia sociale ha la forma di un Paese nel quale il lavoro è al palo da trent’anni ed è il più penalizzato d’Europa e nel quale il fisco è il più ingiusto e sperequato d’Europa. Non sono tra quelli che considera con prudenza la proposta della introduzione di una tassa sui grandi patrimoni finalizzata a precisi obbiettivi di riequilibrio sociale e non solo per un mero riequilibrio di cassa per lo Stato. Nel 2015 l’ho introdotta di fatto, con un emendamento nel Testo unico per l’edilizia nel quale il plusvalore generato dalle trasformazioni urbane ottenute con una variante urbanistica ai Piani regolatori deve essere restituito ai comuni almeno nella misura del 50% e destinato ad opere pubbliche nella zona dove la variante è stata rilasciata. Ci sono stati molti ricorsi contro questa norma, tutti puntualmente respinti, anche dalla Corte costituzionale. Perché la proprietà in base alla Costituzione deve avere una finalità sociale. Lavoro e fisco debbono essere i nostri cavalli di battaglia. Insieme ai diritti civili. Ed insieme a quelle riforme di sistema senza le quali la stessa battaglia per il lavoro diventa di retroguardia, di tutela marginale. Penso alla lotta alla corruzione, alla riforma del governo del territorio e del regime degli appalti, campi sui quali vige una foresta di norme ed una stratificazione di regolamenti che impedisce al Paese di camminare in modo ordinario. Abbiamo ridotto la grande questione meridionale al problema del reddito di cittadinanza e del ponte sullo stretto, rendendo misero il grande dibattito politico e culturale passato attraverso Salvemini e Dorso…. Parliamo di autonomia differenziata senza ammettere che le nostre regioni sono troppe e vanno ridotte e che questa condizione è la prima responsabile della nostra eccessiva spesa pubblica…

E una forzatura affermare che nella politica sui migranti, nella guerra alle Ong, nelle norme anti-raduni, vi siano alcuni dei tratti di quel “Fascismo eterno”, mirabilmente descritto da Umberto Eco?
Il fascismo è un qualche cosa che esiste in un certo profondo sentimento italiano che a un certo punto considera la necessità di semplificare i problemi o di risolverli con la forza. Mussolini lo disse chiaramente: io ho tratto il fascismo dalle viscere degli italiani e non me lo sono inventato. La forma politica del “cesarismo”, diversa dalla tirannide greca, è nata qui, a Roma, creando il mito dell’ “Impero” che, come vediamo, ancora affascina i governanti in tutto il mondo. Putin ne è un epigono… Questo lo dico per dire che il fascismo lo si può negare, nascondere, abiurare ma spesso sta lì, come un ospite indesiderato, persino nei nostri comportamenti individuali… Nei casi che hai citato ho visto dei tentativi pasticciati di ansia di prestazione di un governo che ha voluto subito dimostrare che si “cambiava aria” che la “ricreazione era finita”. Tentativi che lo hanno portato a sbattere perché per fortuna, alla fine, siamo una democrazia avanzata, perché viviamo in un mondo complesso e interdipendente con altri interlocutori internazionali e perché il Partito Democratico, nell’incertezza dei Cinque Stelle, ha fatto un’opposizione parlamentare e nel Paese forte e determinata su diritti non trattabili. Qui, abbiamo fatto il Pd ed abbiamo ottenuto il risultato che volevamo anche se i numeri in Parlamento non ci erano favorevoli. Un esempio di quel che dobbiamo essere.