Per gentile concessione dell’editore Adapt e dell’autore, pubblichiamo qui di seguito uno stralcio di “Capitano, o mio capitano – Il secolo di Luciano Lama (1921-2021)” di Giuliano Cazzola.

La sconfitta alla Fiat

Il sindacato sopravvissuto ai ruggenti anni Settanta – come quel cavaliere che continuava a combattere senza accorgersi di essere già morto – andò incontro a una cocente sconfitta alla Fiat. L’azienda torinese si trovava a dover fronteggiare una situazione di mercato decisamente critica e priva di prospettive a breve. Aveva inizio la grande ristrutturazione produttiva del decennio Ottanta. Dapprima furono richiesti migliaia di licenziamenti. Poi, dopo la caduta del governo Cossiga, la Fiat colse l’occasione per aggiustare il tiro tramutando la richiesta di licenziamenti in 23 mila sospensioni. I sindacati, che erano scivolati, per sostanziale debolezza, in uno sciopero a oltranza, coi picchetti davanti ai cancelli, non furono in grado di convincere i lavoratori a cambiare forma di lotta, rientrando al lavoro e adottando iniziative di sciopero articolato e di più lungo respiro.

Così l’azione andò avanti per 35 giorni. Fino a quando, il 14 ottobre, si svolse a Torino una grande e inaspettata manifestazione a cui presero parte (si disse) 40 mila lavoratori tra capi, tecnici e impiegati, in difesa del diritto al lavoro. L’evento suscitò un’enorme impressione e indusse i vertici sindacali, fino a quel momento fortemente impegnati nella battaglia, a pervenire a un accordo che venne vissuto dalle «avanguardie» come una sconfitta, tanto che, il giorno dopo, i segretari confederali vennero inseguiti da alcuni gruppi di lavoratori, quando si presentarono nelle assemblee. Cesare Romiti, allora amministratore delegato del gruppo torinese, alcuni anni dopo ricordò la conclusione della vertenza con queste parole: «La svolta del 1980 fu determinante non solo per la Fiat ma per tutto il paese. Non credo di peccare di presunzione se affermo che parole come profitto, produttività, merito hanno riacquistato il diritto di esistere in Italia grazie soprattutto a noi, alla nostra fermezza».

Allora dirigeva la Cgil del Piemonte Fausto Bertinotti e Claudio Sabattini – l’unico che pagò (insieme con il suo fedele vice Tiziano Rinaldini) per la sconfitta con un’emarginazione durata anni e scontata duramente anche sul piano personale – era il segretario della Fiom che seguiva il settore dell’auto. A questo proposito, quando anni dopo, Sabattini fu “riabilitato” (arrivò persino ad essere eletto segretario generale della Fiom dove fondò la dinastia dei “sandinisti” tuttora al potere) raccontò di un incontro tra lui e Lama il cui tono era questo: «Ricordo che dopo il 1980 Lama mi disse che bisognava trovare un capro espiatorio, e che io dovevo assolvere a questa funzione e poi Lama aggiunse: «È capitato anche a me per molto meno, sono dovuto passare dalla segreteria confederale ai chimici improvvisamente, solo perché avevo mancato di rispetto ad un segretario confederale». Che fosse accaduto davvero così? Sabattini era molto spregiudicato, come confermò anche Trentin (che pure volle “recuperarlo” e ricostruirgli la carriera) nei suoi Diari: «Ma anche Sabattini e il suo tentativo di accreditarsi come il rappresentante DOC del centro del Pds con una spregiudicatezza e una durezza che dimostra[no] come le vittime di ieri sanno imparare dai loro carnefici».

Come il bambino della favola, i “quarantamila” di quel 14 ottobre 1980 avevano svelato la nudità del sovrano-sindacato. I dirigenti più responsabili colsero quella traumatica occasione per compiere quanto non erano stati in grado di fare prima: concludere, alle condizioni possibili, una vertenza ormai insostenibile. Viene da chiedersi – col senno di poi – perché il sindacato abbia avviato una riflessione autocritica soltanto dopo la sconfitta, mentre prima – in nome di una falsa unità di classe – l’intero movimento confederale si era schierato a favore di una lotta persa in partenza, perché partiva da una negazione della crisi come dato oggettivo rispetto al quale la stessa azienda non aveva spazi di manovra, salvo condannarsi a un inesorabile declino. Le analisi compiute dal sindacato erano invece le solite, tutte incentrate sull’esigenza di sconfiggere un disegno diabolico, teso a recuperare potere in fabbrica. Le maestranze della Fiat furono le prime vittime di una direzione sindacale in parte inadeguata e in parte pregiudizialmente intenzionata a inasprire la vertenza e la lotta. Nel suo insieme, il sindacato sembrò negare, infatti, l’oggettività della crisi produttiva, il mutamento dei mercati e la necessità d’ampi processi di ristrutturazione.

Tutta l’operazione – la richiesta di 15 mila licenziamenti prima, di 23mila lavoratori in cassa integrazione, poi, faceva parte di un progetto di recupero di un dominio assoluto, che il sindacato aveva il dovere di contrastare. I sindacalisti e il sindacato erano ancora in auge; ma somigliavano a quei viaggiatori su di una mongolfiera bucata: credono di andare più veloci mentre stanno precipitando. Come ricorda Carniti: «L’impressione prevalente, in ogni caso quella di Lama, Benvenuto e la mia, è che ci si sta cacciando in un vicolo cieco». Se le dinamiche di quella vertenza sono note, il saggio di Pierre Carniti consente di conoscere le considerazioni che i gruppi dirigenti fecero nelle ore convulse che seguirono la “marcia” e che li portò a firmare d’urgenza il testo dell’accordo proposto dalla Fiat, anche perché era evidente a chiunque che lo sciopero ad oltranza (una forma di lotta estranea all’esperienza italiana) non era un segno di forza ma di grande debolezza. Il successo dell’iniziativa era affidato ai picchetti dislocati sui tanti portoni degli stabilimenti e rafforzati da lavoratori provenienti da altre città. I “nostalgici” dell’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920 (che durò meno dei 35 giorni di 60 anni dopo) arrivarono a strumentalizzare alcune parole di circostanza dette da Enrico Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat. Eppure tutti sapevano che “occupare” quegli stabilimenti sarebbe stata un’avventura insostenibile.

In quello stesso giorno – 14 ottobre – era in corso una trattativa a Roma. All’arrivo delle notizie da Torino, Romiti volle informarne anche la controparte, tra cui i segretari generali delle confederazioni. Carniti scrive che «nel giro di poche ore appare chiaro che l’azienda …è disponibile a definire una soluzione». Poi racconta che era Lama ad insistere per chiudere la trattativa senza ulteriori rinvii, ma che lui, spesso in polemica con Romiti, la trascinò avanti fino alle 5 del mattino successivo. Era il caso di perdere inutilmente una notte di sonno quando ormai tutti erano decisi a chiudere la partita. La sera stessa, al cinema Smeraldo di Torino ha luogo l’assemblea dei delegati. «Il clima psicologico è pessimo – spiega Carniti – e la riunione sempre sull’orlo di un imminente degenerazione. Tra brusii e lazzi – aggiunge – prendiamo la parola Benvenuto, Trentin ed io». Lama decise di non parlare in quel contesto. Alla fine dell’assemblea all’una si assegnarono gli stabilimenti dove i segretari generali avrebbero tenuto le assemblee dei lavoratori.

Carniti alle 5 del mattino alle Meccaniche di Mirafiori, Lama alla Carrozzeria, Benvenuto alle Presse. Nel ricordare questi fatti non posso non sottolineare che gli eredi odierni di dirigenti di quella stoffa oggi non vogliono prendersi la responsabilità di indurre i lavoratori a vaccinarsi ovviamente anche nel loro interesse. Nel suo libro più volte citato Carniti racconta della dura aggressione (preordinata quasi manu militari) che dovette subire quando aveva terminato l’assemblea che gli era stata assegnata e durante la quale, sia pure in un clima polemico, la maggioranza dei lavoratori aveva approvato l’intesa raggiunta.