Della 29esima Conferenza delle Parti (Cop29), in corso dall’altro ieri a Baku, in Azerbaigian, e che terminerà il 22 novembre, si potrebbe scrivere una polemica stizzita quanto anche un’analisi più ragionata. Partiamo dall’interpretazione “dionisiaca”.

Definire il petrolio “un dono di Dio”, come ha fatto il presidente azero Ilham Aliyev in apertura del summit, non è il massimo della diplomazia. È vero che al padrone di casa è concessa libertà di parola e che gli idrocarburi hanno reso il suo paese una delle economie più floride della regione. Tuttavia dire una cosa del genere alla conferenza sul clima più importante dell’anno (e del mondo) è un po’ come proporre un bicchiere di whisky a un Imam. C’è poi un discorso di coerenza dell’evento in sé. La chiamano Conferenza delle Parti. Ma sono assenti Biden, von der Leyen, Macron e Lula. Almeno questi i principali. Quindi di parti coinvolte se ne può parlare poco.

Detto questo, ogni cosa ha la sua spiegazione. Razionale appunto. I big del mondo disertano la Cop perché stanno iniziando a dubitare della sua efficacia. Il cambiamento climatico procede a una velocità doppia rispetto alle sue soluzioni. Il 2024 sta per chiudersi come l’anno più caldo del pianeta da quando si è iniziato a registrarne le temperature. Il countdown denunciato ieri a Baku dal segretario generale dell’Onu, António Guterres, per abbassare di 1,5 gradi la temperatura della Terra sembra non essere percepito come un segnale di allarme.

Addossare però tutte le responsabilità a Trump è pretestuoso. In fondo, The Donald ha vinto le elezioni appena una settimana fa. È vero che ha già fatto passare il rumor di volersi ritirare dall’accordo di Parigi. Sgarbo già fatto, quindi ne dovremmo essere vaccinati. Ma è altrettanto noto che Trump è inaffidabile quanto imprevedibile. Da qui la teoria – pura teoria! – che possa sfruttare i fondi green dell’Inflation Reduction Act, voluto da Biden, per alzare l’asticella del conflitto economico con la Cina. Perché no? Per uno come lui, tutto è lecito. Va poi detto che, saldo alla Casa Bianca ancora per due mesi, Joe avrebbe avuto tutte le buone ragioni per mettere la sua bandierina di presenza alla Cop.

In Europa poi, la Commissione von der Leyen sta per avvicinarci al voto di fiducia del Parlamento. Non sarà una passeggiata di salute. I destini della guerra russo-ucraina pendono dalla volontà (questo sì) della prossima amministrazione Usa. Il multilateralismo sta andando verso posizioni sempre più intransigenti. Qualora ai conflitti in corso si dovesse aggiungere una crisi aperta a Taiwan, non è detto che lo stop al climate change – per quanto necessario sia – resti una priorità. Stando così le cose, nessuno dei leader assenti deve essersi sentito in grado di prendere impegni concreti.

D’altra parte la Cop 29 non è un flop. I negoziati tecnici dei prossimi giorni si concentreranno sulla finanza climatica. Questo è l’anno di scadenza per trovare un accordo per il nuovo target (New Collective Quantified Goal – Ncqg) che sostituirà il precedente obiettivo dei 100 miliardi annui, a partire dal 2025, destinati ad aiutare i paesi più vulnerabili ad affrontare i cambiamenti climatici. A Baku, infatti, le 198 Parti – che comunque non sono poche – devono stabilire dove recuperare i trilioni di dollari del fondo “loss and damage”, indirizzati a ricostruire le città investite dai cataclismi. Vedi Valencia. Finalmente si parla di soldi, quindi!

Dopo l’accordo della Cop 208 (Dubai, 2023), del transitioning away dalle fonti fossili già a partire da questo decennio, e in vista della Cop 30 (Belém, 2025), il mondo mette sullo stesso piano ambizioni climatiche e costi. Sarà difficile arrivare a una quadra. Ma una ventata di realismo è necessaria. A questo punto l’attenzione va su Giorgia Meloni che, al contrario dei suoi colleghi, interviene oggi a Baku. Non solo come premier italiana, ma in qualità di leader di turno del G7. A lei l’onere, quindi, per capire come tornare a un clima migliore. E con clima non si intende solo quello atmosferico.