Sono tempi difficili. Pandemia e guerra stanno fratturando le società e questo sta accadendo soprattutto in Occidente. In Italia e altrove sono improvvisamente venute alla luce diversità, distinzioni, crepe, contrasti di convinzioni intorno a snodi fondamentali della vita collettiva. Il benessere ci aveva reso flaccidi e accomodanti, inclini a quella tolleranza che, non a caso, non ha spazio nella nostra Costituzione – tutta imbevuta di valori – perché considerata in sé e per sé tappa intermedia verso la gelida indifferenza. Probabilmente è così per la nostra Carta, generata da partigiani appunto.

Ci si divide e su cose importanti, dunque, e non è un caso che nelle polemiche di questi due anni orribili ci siano finiti dentro, e spesso per primi, filosofi, costituzionalisti, sociologici, teorici del diritto. Perché quando le questioni incidono profondamente l’esistenza e toccano i pilastri della terra comune, spetta a chi può spendere competenza pronunciare parole anche scomode. Difficile, quindi, tener distinti i discorsi sull’obbligo vaccinale, sul green pass, sui decreti emergenziali, sull’eutanasia da quelli sulla guerra in Ucraina. Tutti affondano alle radici delle convinzioni più intime di ciascun cittadino, del modo con cui intende la libertà, il bene comune, la solidarietà, la vita e la morte, quindi, la pace e la guerra. A un mese circa dall’inizio di un bagno di sangue scatenato da un criminale di guerra, ci sono parecchie cose nella discussione in atto che non devono sorprendere. Siamo divisi in modo anche radicale, è il prezzo di una democrazia resa fiacca dalla sfiducia, ma che è pur sempre vitale.

Ci voleva un costituzionalista di grande prestigio, Gaetano Azzariti, professore ordinario di costituzionale alla Sapienza, per ridare vigore e dignità a una riflessione che qualcuno, anche con una certa malizia, vuole vedere sprofondare negli agevoli acquitrini di un misero confronto tra pretesi putiniani e pretesi antiputiniani. Confronto del quale, invero, nessuno sente il bisogno tanto chiare sono le ragioni degli oppressi rispetto a quelle degli oppressori e che è piuttosto solo un modo per sottrarsi a un dibattito meno superficiale. E, infatti, Gaetano Azzariti, in un saggio dal titolo particolarmente suggestivo (“La Costituzione rimossa”), si è curato di volgere lo sguardo alle radici di un’analisi sui temi della guerra e della pace che per essere ordinata e moralmente corretta non dovrebbe che partire dalla Costituzione. Pensate un po’ il professore lo ho fatto proprio riprendendo in mano la Carta del 1948 e ricordandone il testo parola per parola, sillaba per sillaba, con rigore scientifico. Un’operazione sovversiva di questi tempi, soprattutto se si scopre che «nel dibattito sulla guerra in Ucraina che si è svolto in Parlamento la Costituzione è stata rimossa. Mai richiamata, né nell’intervento del presidente del Consiglio, né nella risoluzione approvata con il concorso di maggioranza e opposizione».

Certo argomento particolarmente scomodo quello del richiamo ai padri costituenti che qualcuno immagina ignari di cosa fosse un conflitto e che, come tali, si erano avventurati in uno degli enunciati più solenni della Costituzione: «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Non si discute della guerra come sacra difesa della patria (articolo 52), del diritto del Parlamento a proclamarla in caso di aggressione (articoli 60, 78 e 87); queste sono cose scontate. Il professore Azzariti dubita, piuttosto, che la Costituzione consenta di fornire armi a un paese che versi in stato di belligeranza con un’altra nazione nell’ambito di una controversia internazionale senza che ogni mezzo di risoluzione pacifica del conflitto non sia stato portato a compimento o almeno tentato efficacemente. E’ sotto gli occhi di tutti che nessuno dei due contendenti vuole raggiungere una tregua in questo momento e che ciascuno spera di potersi aggiudicare qualche vantaggio. Certo secondo prospettive radicalmente opposte e per non comparabili esigenze, ma la pace non sta oggi di casa in quella terra piena di odio.

L’articolo 11 della nostra Costituzione, dopo il ripudio della guerra, tutto d’un fiato, senza interporre neppure una pausa, prosegue: (l’Italia) «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Un blocco unitario, un nucleo privo di fessure o cedimenti di sorta secondo Azzariti, il quale aggiunge: «c’è allora da chiedersi se, in caso di guerra, i principi costituzionali debbano essere sostituiti con i vincoli internazionali. Domanda per nulla peregrina poiché è evidente che la crisi Ucraina ha una sua determinante dimensione globale e la soluzione deve essere ricercata coinvolgendo il diritto internazionale più che quello nazionale. Ciò non toglie però che il comportamento del nostro Governo, anche sul piano dei rapporti con gli altri Stati e nelle organizzazioni di cui è parte, deve essere indirizzato dalla sua legge suprema».
Si pone, così, il problema della cessione delle armi in favore di un paese che si trovi in stato di conflitto con un altro. La legge 185 del 1990 non consente l’approvvigionamento di armi verso stati in stato di conflitto armato almeno che – secondo i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite – uno di essi non stia esercitando «il diritto naturale di autodifesa individuale o collettiva».

L’Ucraina sicuramente versa in questa condizione e sicuramente, da nazione aggredita, può ricevere armamenti dal Governo italiano. Ma la medesima legge, più volte, si cura di precisare che tali operazioni di cessione devono essere regolamentate «dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», lasciando intendere che l’opzione governativa (previo parere delle Camere) di inviare armi a uno dei contendenti non può che procedere dal paradigma indefettibile del ripudio della guerra. Una nazione «la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione» recita la legge del 1990 non può ricevere armi dall’Italia. Ecco perché non riforniamo di armi i palestinesi o i curdi o gli yemeniti o altre popolazioni in guerra nel mondo, perché ripudiano la pace. Poche altre battute dal saggio di Azzariti: «in Ucraina, in questo momento, se vuoi la pace devi far cessare il confronto militare, non solo quello armato che sta producendo gli orrori della guerra, ma anche quello tra le potenze e gli Stati che si armano per continuare lo scontro, magari in altre forme. Ora è il tempo dei “costruttori di pace”, ovvero di soggetti che in piena autonomia possano operare come mediatori tra le parti in lotta. Organizzazioni terze, non perché prive di giudizio – è chiaro in questo caso chi siano gli aggressori e chi le vittime – ma perché estranee al conflitto. Per poter svolgere la funzione di mediazione necessaria, infatti, non si può al tempo stesso partecipare alla guerra».

Siamo al punto nevralgico del discorso: si deve chiarire, al più alto livello possibile di ragionamento, se armare uno dei contendenti equivalga o meno a partecipare a una guerra, violando l’imperativo costituzionale del ripudio. L’Italia, si dice anche per un preciso diktat americano, si è vista privata quasi subito di questa terzietà che consente oggi a nazioni come la Turchia o Israele o la Cina di cercare un dialogo e una soluzione al massacro in atto. Con le forniture di armi, secondo Azzariti, il paese è venuto meno a un dovere costituzionale irrinunciabile e non negoziabile cedendo alle pressioni di un’organizzazione “non terza” come la Nato, da lui ritenuta neppure compresa tra quelle che l’articolo 11 indica come promotrici di pace, essendo un’alleanza militare. E’ vero, il popolo ucraino ha ogni diritto a difendersi, ma ammonisce ex cathedra lo studioso: «Ai popoli e agli Stati non in guerra spetta un altro compito: quello di far cessare le ostilità, “porre fine al conflitto”, non invece alimentarlo». Non un buon proposito da spendere in chiacchiere, ma un dovere costitutivo della Repubblica.