Lo chiamano “oro nero” perché è la materia prima che da oltre un secolo fa girare l’economia mondiale. Per il controllo dell’estrazione del petrolio si sono sottomesse intere popolazioni, combattute guerre, deposti regimi, combinate alleanze e congiure internazionali. Il possesso dei giacimenti ha deciso i vincitori delle guerre, cambiato la storia del “secolo breve” e decretato la fine del colonialismo, orientato la produzione dei beni di consumo durevole che hanno trainato lo sviluppo dell’economia e degli scambi commerciali. Poi, come vedremo, anche il petrolio (con i suoi derivati) “non è più quello di una volta”.

Ma anche oggi – con buona pace di Greta Thunberg e delle energie alternative – resta sempre una fondamentale materia prima per avvalersi della quale si costruiscono oleodotti (e gasdotti) che attraversano il pianeta e si intessono alleanze politiche per il loro utilizzo. Le cosiddette crisi petrolifere hanno messo in ginocchio l’economia mondiale. Nel secolo scorso si verificarono ben due gravi crisi. La prima nel 1973, dopo lo scoppio della guerra arabo-israeliana della Yom Kippur. I paesi arabi produttori di petrolio (che avevano nazionalizzato i centri di produzione sottraendoli al dominio delle cosiddette sette sorelle (le grandi compagnie produttrici internazionali), con una decisione improvvisa e repentina, quadruplicarono il prezzo del greggio che passò da 2-3 dollari a 12 dollari al barile.

Un secondo aumento si verificò nel 1979 quando il prezzo del greggio arrivò a 32 dollari al barile per decisione dell’Opec (l’organizzazione dei paesi produttori). La combinazione tra l’aumento del petrolio e di quello delle principali materie prime ebbe effetti traumatici sulle economie dei Paesi industrializzati. Peraltro vi era la convinzione che il petrolio fosse un bene “limitato”, disponibile solo per qualche decennio. Ed è in forza di tale considerazione che maturò la decisione in molti Paesi di passare alla produzione di energia nucleare per sottrarsi al ricatto – spesso, nonostante le divisioni nell’Opec – dei Paesi produttori.

Ma l’effetto più importante derivò dalla scoperta di nuovi giacimenti (in particolare nel Mare del Nord) e di nuove tecniche di estrazione che riducevano i costi, inducendo così le compagnie petrolifere a cercare il greggio anche dove, in precedenza, non era conveniente cercarlo. In questo modo, molti Paesi hanno raggiunto o aumentato la copertura del loro fabbisogno e delle scorte strategiche, magari entrando a far parte del “cartello” e condizionandone le decisioni per quanto riguarda le quantità dell’estrazione e la sua incidenza nel prezzo. Sul finire del secolo scorso vi sono stati periodi di forte incremento del barile di greggio (ben oltre i 100 dollari), seguiti da periodi di riduzione, con una stabilizzazione intorno ai 50-55 dollari.

Ciò fino al momento in cui la “guerra petrolifera” si è spostata all’interno dei Paesi produttori, non solo per il perseguimento di differenti strategie geopolitiche, ma soprattutto per affermare un’egemonia sul mercato. Arabia Saudita e Russia hanno litigato a lungo su quali scelte adottare, perché Riad voleva ridurre la produzione già eccessiva, mentre Mosca voleva mantenerla stabile, con l’obiettivo di danneggiare soprattutto gli Stati Uniti, che hanno bisogno di prezzi elevati per tenere in piedi l’industria più costosa delle estrazioni shale (petrolio prodotto da frammenti di roccia). Alla fine la mediazione del presidente Trump ha sbloccato la situazione, e il 12 aprile l’Opec e la Russia hanno accettato di ridurre la produzione di 9,7 milioni di barile al giorno, a partire da maggio. Troppo tardi, però, perché il danno ormai era già stato fatto.

Il “cavallo”, ovvero la struttura produttiva mondiale aveva smesso di bere. Nel giro di poche settimane l’economia internazionale – sia pure con tempi e prospettive differenti – è entrata in quarantena. Si è arrivati, persino, a dover smaltire le scorte (da qui il prezzo negativo del barile). In sostanza, le scorte di oro nero si sono trasformate in un prodotto di cui è conveniente liberarsi, per risparmiare sui costi di stoccaggio. Va da sé che questa circostanza ha inciso sui mercati finanziari, già sotto sopra per altri buoni motivi.

Un crollo legato al peggioramento della crisi causata dal coronavirus, con i trader che non vogliono più investire sul petrolio anche per il pesante squilibrio tra domanda e offerta dovuto alla pandemia. In questa situazione sono intervenuti gli Stati Uniti. «Tenendo conto del prezzo basso da record del greggio abbiamo deciso di aggiungere altri 75 milioni di barili alle proprie riserve strategiche nazionali. Questo è un gran momento per acquistare petrolio e lo facciamo al prezzo giusto», ha affermato Trump spiegando che si tratta di una discesa “di breve termine” e che nel giro di un mese ci sarà un rimbalzo del prezzo a 25-28 dollari al barile.

È difficile individuare la via giusta in frangenti come gli attuali. Il petrolio e i suoi derivati sono come il cibo per l’economia mondiale. C’è da ritenere così che il prezzo negativo sia la conseguenza della sovrapproduzione intercorsa fino all’accordo del 12 aprile e che la decisione di un contingentamento riporti più in equilibrio il mercato. Ma ci vorrà del tempo – e soprattutto un riavvio dell’economia – per raggiungere quel prezzo di vendita sui 40 dollari al barile che rappresenta il limite minimo per coprire le spese d’estrazione e rendere conveniente questa attività.