Ineccepibile nell’immediato, insufficiente sul lungo periodo. La pagella dell’Unione europea non può che recitare così, ad agosto 2023. No, non è un atto di antieuropeismo ma l’esatto contrario: il desiderio di avere più Europa. Ed è bene riconoscerlo per far sì che il vecchio continente non sbagli strada al bivio con la storia che si presenterà da qui alle prossime elezioni europee del 2024. La scelta sarà tra un’Europa che continua a giocare sulla difensiva e un’altra che, invece, prova a gestire i cambiamenti in atto e a incidere su di essi. Perché la differenza, ancora una volta, la farà lei: la politica.
Se la Commissione europea guidata da Ursula Von Der Leyen ha saputo mettere in campo sforzi senza precedenti per fronteggiare prima la pandemia e poi gli effetti immediati della guerra della Russia contro l’Ucraina, è sulla strategia di lungo periodo che si osservano le maggiori lacune.
Il motore franco-tedesco che ha sempre ispirato – piaccia o meno – le scelte principali di Bruxelles e Strasburgo, sembra essersi inceppato. Il cancelliere tedesco Scholz è alle prese con una crisi economica strisciante, confermata nei giorni scorsi i dati dell’Ifo, il prestigioso istituto economico di Monaco di Baviera. “Si sta preparando una tempesta. Dopo molti anni di espansione, ora i tassi di interesse più elevati e il drastico aumento dei costi di costruzione stanno soffocando i nuovi affari”, dice l’istituto. Il cancelliere socialista Scholz, poi, non sembra nelle condizioni di riuscire a rassicurare il sistema produttivo tedesco: sia per l’eccessiva litigiosità della sua coalizione che per l’oggettiva differenza di standing con chi lo ha preceduto, Angela Merkel.
Il calo di autorevolezza della leadership tedesca (che qualcuno aveva salutato come una buona notizia all’indomani dell’uscita di scena della Merkel) in realtà indebolisce tutta l’UE. A cui non giova neppure la crisi di un altro dei suoi ‘soci fondatori’, l’Olanda, entrata ufficialmente in recessione tecnica nel secondo trimestre dell’anno a causa della contrazione sia dei consumi che delle esportazioni. A questo si aggiunge la crisi politica innescata dalle dimissioni del premier liberale Mark Rutte (da 13 anni alla guida del Paese), che rischia di spianare la strada al Movimento dei Cittadini-Agricoltori BBB, partito negazionista climatico e anti-europeo favorito nei sondaggi in vista delle elezioni interne di novembre.
Nell’Europa che registra, tra l’altro, incremento record di fallimenti, incapacità cronica di gestione dei flussi migratori e continua ad essere attore non protagonista delle dinamiche di politica internazionale, il presidente francese Emmanuel Macron è l’unico tra gli attuali leader che si sforza di inquadrare ogni scelta di politica interna dentro una più ampia cornice europea. Ogni volta che prova a dare spunti, a stimolare il rilancio del progetto europeo, a indicare una via, riceve molte pacche sulle spalle: ma quando si volta, trova il vuoto.
I suoi interlocutori, i capi di governo degli altri 26 stati membri, sono per lo più piegati a gestire le beghe interne e riluttanti a compiere gli sforzi necessari per rendere l’Europa in grado di giocare alla pari con gli altri colossi mondiali le grandi partite in corso, senza ricorrere ogni volta all’aiuto dello Zio Sam (ormai sempre più propenso a dare una mano solo se direttamente interessato, indipendentemente da chi sia l’inquilino della Casa Bianca).
Ne è prova lampante la situazione di stallo in cui si trova l’Ucraina: il presidente Zelensky è costretto a muoversi da una capitale all’altra per ottenere quanto più possibile per difendere la propria indipendenza, in assenza di un’unica e vera controparte europea. Eppure oltre agli armamenti e ai soldi, all’Ucraina (e ai popoli europei sempre più insofferenti) occorre offrire una concreta prospettiva di conclusione del confitto. Perché la soluzione non può essere affidata solo alle armi: occorrono politica e diplomazia. Serve più Europa e con essa politici in grado di rappresentarla e darle voce.